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IL FUOCO INVISIBILE

 

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IL FUOCO INVISIBILE

“Con la sua maniera avvincente di raccontare, Rielli ci fa capire come tante cosiddette catastrofi naturali siano in realtà catastrofi umane.”

Emanuele Trevi

“Uno dei più bei romanzi usciti quest’anno”

Antonio Pascale – Il Foglio

“Un racconto a varie prospettive che si legge come un thriller e unisce il brio di certe indagini del New Yorker alla tendenza ri­flessiva intima e problematiz­zante dei reportage di Emma­nuel Carrère.”

Vincenzo Latronico – Domani

“Come in una versione ancora più farse­sca di Don’t look up non è l’a­steroide o il batterio tossico a farci spavento, ma la crisi epistemica che contagia gli esseri umani, la rimozione collettiva del disastro.”

Christian Raimo – TuttoLibri

“Il fuoco invisibile non è un saggio ma un romanzo del reale”

Chiara Severgnini – Corriere della sera

“Il racconto si fa insieme un roman­zo familiare e una sintesi delle evidenze scientifiche allo stato attuale; una lucida analisi storica, economi­ca e sociologica e uno spaccato di cronaca giudiziaria.”

Anna Rita Longo – Le Scienze

“Un formidabile romanzo famigliare – Il fuoco invisibile nella mia libreria lo metto all’ingresso, dove metto i libri di cui parlano tutti “

Alessandro Barbaglia – “Shelf, il posto dei libri”

“Così, per altro verso, Il fuoco invisibile è un libro che parla di come bisognerebbe e non bisognerebbe parlare delle cose, e perciò riguarda anche chi, come me, non ha uno speciale interesse per gli ulivi e le loro malattie, riguarda tutti i cittadini coscienti.”

Claudio Giunta

“”Il Fuoco invisibile” di Daniele Rielli è un libro che ne contiene al­meno quattro. Un raccolto fatto di consapevolezza, ricerca delve­ro, ascolto, riconciliazione con le cose umane.”

NIcola Pedrazzi -Il Foglio

“Una storia che è prima di tutto umana, dunque politica, che ha la cadenza di un giallo e il respiro tragico del dramma”

Annalisa De Simone – Il Riformista

“Il fuoco invisibile” di Daniele Rielli è un libro necessario.

Luca Martinelli – Il Manifesto

“Rielli ci consegna una lettura esemplare e istruttiva su un disastro contemporaneo”

Enzo Mansueto – Corriere del Mezzogiorno

Il 28 marzo è uscito il mio nuovo libro, si chiama “IL FUOCO INVISIBILE – storia umana di un disastro naturale” (Rizzoli) e da oggi si può prenotare in libreria o qui.
Questo libro è tante cose assieme: è il racconto di una grande illusione collettiva, un romanzo famigliare e la narrazione delle vite dei protagonisti, nel bene e nel male, di un’incredibile storia vera.
Se dovessi definirlo in una sola riga direi “il romanzo della strage degli ulivi”, un romanzo però dove ogni cosa è reale e tutti i personaggi esistono davvero. La puntata di PDR podcast in cui parlo del libro assieme a Amedeo Balbi:

#Fuocoinvisibile Tour
28 Marzo Roma Presentazione “Il Fuoco invisibile” e PDR LIVE, modera Amedeo Balbi @Studio 33 h18.30 (evento solo su prenotazione- SOLD OUT)
30 Marzo
Gallipoli @Macarìa modera Andrea Donaera h.16.30
Alessano@Libreria Idrusa h19
31 Marzo Bari@Liberrima h.18 interviene Donato Boscia (CNR)
1 Aprile Lecce @Convitto Palmieri h.18 Interverranno il Sindaco di Lecce Carlo Salvemini, Alessadro Valenti, Francesco Gioffredi. In collaborazione con Libreria Palmieri
11 Aprile Bologna@Sala Borsa h18, modera Guia Soncini In collaborazione con Libreria Coop
12 Aprile Milano @Verso Libri h18.30 modera Paolo Bernardelli
13 Aprile Bolzano, modera Claudio Giunta@Casa della Pesa h 18 In collaborazione con Libreria Ubik Bolzano
17 Aprile-Rovereto, modera Giorgio Vallortigara@Libreria Arcadia  h18
 29 aprile- Fidenza h17 teatro magnani @Terra incognita festival
5 Maggio Lugano @LAC
 12 maggio Ferrara @Libraccio
 18 maggio Milano@Will media -Porter House Milano 5 Via Pompeo Leoni h 18.30, registrazione gratuita qui
19 Maggio Torino@ Salone del libro
h.10.30 sala rosa, padiglione 1,  modera Danilo Zagaria
h.13 firmacopie Stand Rizzoli
20 maggio Mantova @Food&Science Festival h 17.30 Teatro Bibiena
23 e 24 maggio Reading de “Il fuoco invisibile” in collaborazione con il Teatro stabile di Bolzano@ Centro Trevi Bolzano, h 18 prenotazione gratuita qui
24 giugno Salerno @Salerno Letteratura h 19 corte interna convitto Nazioanle
28 giugno Gioia del Colle (BA) h.19.30 Municipio
29 Giugno Specchia(Le) h 20. Piazza del popolo
30 Giugno Trepuzzi (Le) h.19 piazza municipio
5 Luglio Calimera (Le) h.20 Vizi degli dei
6 luglio Il libro possibile – Festival Polignano a Mare (Ba) h.22.30 piazza dell’orologio
7 luglio Presicce (le) giardini pensili palazzo ducale h21
10 Luglio Cutrofiano (Le) Municipio h.20
14 Luglio Ex convento degli Agostinani h 20. Lecce
15 Luglio Castello di Tutino, Tricase h20
27 Luglio RocAntica PDR podcast Live con Rocco Tanica, h21 Roca (LE)
28 Luglio RocAntica PDR podcast Live con Mandrake, h21 Roca (LE)
29 luglio reading musicato de Il fuoco invisibile con Gabriele Rampino, h21 Roca (LE)
30 Luglio Locorotondo@Viva Festival, dialogo con Gianumberto Acinelli h 19 Cala Masciola
20 agosto @Pane e Olio – Montecastello di Vibio (PG)
8 Settembre  @Festival Letteratura Mantova ATTENZIONE: l’evento si terrà con gli altri ospiti ma io non sarò presente per motivi personali.
Altre date sono in via di definizione. Per proposte di presentazione: quitthedoner@mail.com

“STORIE DAL MONDO NUOVO” IN LIBRERIA

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(2° edizione)

 Dicono di “Storie dal mondo nuovo”

Tanti pezzi diversissimi di mondo tenuti insieme dalla capacità di guardare i fatti e tradurli in narrazione, genere nel quale Rielli eccelle come Carrère o Tom Wolfe .

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Rielli aggiorna al terzo millennio un’idea classica del reportage narrativo, quella novecentesca dei Parise e Vassalli, Ceronetti e Piovene, Manganelli e Tabucchi fino a Tiziano Terzani. Brillantezza linguistica, scelta delle fonti, incisività, ritmo, indipendenza e libertà di pensiero sono le sue armi

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Alla mente torna il geniale Foster Wallace di “Considera l’aragosta

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Rielli possiede un controllo della lingua che lo sottrae ai velleitarismi pirotecnici che sono, invece, uno degli abiti ricorrenti della prosa italiana attuale

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Raramente ho trovato qualcosa di più inusuale e godibile nella descrizione della realtà. Daniele Rielli, ricordate questo  nome

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Daniele Rielli è la prova che in Italia anche il talento conta

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Si ride e si spalancano i neuroni

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Magnifici reportage

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Storie dal mondo nuovo, un rimedio contro la post-verità

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 “STORIE DAL MONDO NUOVO”

(Da Adelphi.it) I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell’elefante – nel cuore della Puglia. L’incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l’inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online. Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere.

alcune interviste a proposito di “Storie dal mondo nuovo”

La Stampa (video) 

La Lingua Batte- Radio Rai Tre

Minima Moralia
Comedy bay

Michel Houellebecq: decadenza e salvezza in “Annientare”

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Questo articolo è uscito su Il Foglio del 06.01.22

Come si scrive un romanzo sulla decadenza di una civiltà? Il compito non è agevole ma in tutta la sua carriera di scrittore Michel Houellebecq non ha mai temuto i grandi temi e il suo nuovo Annientare, in libreria dal 7 gennaio per la Nave di Teseo, non fa eccezione.

Il romanzo si svolge fra il 2026 e il 2027, Paul, il protagonista, è il consigliere e confidente personale di Bruno Juge, il ministro dell’economia che ha risollevato l’economia della Francia. Bruno è una persona per molti versi encomiabile: lavoratore instancabile, moralmente integro, nazionalista senza eccessi, è l’immagine Houellebecquiana del politico ideale. Ciò non toglie che finisca ghigliottinato, seppur solo virtualmente, in un misterioso video realizzato con capacità tecniche molto più avanzate rispetto a quelle delle migliori aziende di computer grafica ed effetti speciali. È solo il primo di una serie di atti terroristici, prima solo simbolici e poi anche violenti. L’identità degli autori è misteriosa ma sembra probabile che siano ispirati da un mix di luddismo filosofico à la Unabomber e di esoterismo satanista.

Houellebecq ha detto in più occasioni che politicamente le persone “tendono a pensare ciò che disturba meno il loro gruppo sociale” e il Paul di Annientare si comporta di conseguenza. Vota per l’amministrazione per cui lavora, seppur senza grosso entusiasmo e senza stimare il presidente che al contrario del suo ministro gli sembra una persona intelligente e talentuosa ma totalmente definita dal suo cinismo.

Il meccanismo di predeterminazione funziona per tutti, anche per lo stesso ministro, tanto che quando Bruno sostiene che sarebbe un peccato per la Francia se venisse eletto il Rassemblement national Paul si chiede “Da dove gli veniva quella convinzione? Da un ragionamento basato su una certa forma di razionalità economica? Da una morale antirazzista, umanista, che aveva ricevuto in retaggio? O più semplicemente dalle sue origini borghesi? Tutte quelle spiegazioni del resto potevano coincidere”. Quando diventa chiaro che l’obbiettivo degli attentati sono i leader delle più importanti aziende tecnologiche del mondo, l’indifferenza ideologica di Paul non gli impedisce tuttavia di pensare che “se l’obiettivo dei terroristi era quello di annientare il mondo come lui lo conosceva, di annientare il mondo moderno, non poteva dargli affatto torto”.

 Ma in cosa consiste il mondo moderno e che cos’è la decadenza? Domande a cui è molto difficile rispondere direttamente, il che rende “Annientare” uno dei libri di Houellebecq più “laterali” e per certi versi quindi più propriamente romanzeschi. Paul sostiene che “Il concetto di decadenza poteva anche essere difficile da circoscrivere, ma ciò non voleva dire che non fosse una realtà potente”. La decadenza di una civiltà è un fenomeno frastagliato, che si avverte con chiarezza ma i cui confini non sono sempre facilmente delineabili ed è un qualcosa di assieme personale e collettivo. È probabilmente anche per questo motivo che Houellebecq apre per la prima volta alla presenza in un suo romanzo di relazioni familiari articolate e vive, relazioni che vanno oltre gli sparuti resti ormai freddi – fatti di funerali, burocrazia, abbandono e incomunicabilità – a cui ci aveva abituato nei libri precedenti quando parlava della condizione familiare dei suoi protagonisti.

L’Homo Houellebecquensis fino ad Annientare ha sempre vissuto in uno stato di solitudine straziante ed estrema, impegnato in una lotta interiore e impari con la sua società e con il suo tempo storico.  Con l’eccezione dell’insuperato esordio (Estensione del dominio della lotta), la situazione in cui si ritrova tipicamente l’H.H non è necessariamente realistica, il quadro può anzi risultare fin troppo estremo, a tratti grottesco, l’intenzione è sempre quella di illuminare il mondo attraverso la sua deformazione e di dare un respiro lirico al presentarsi di un miglioramento. In genere, questa condizione di isolamento assoluto viene infatti resa più sopportabile dalla comparsa di una donna: l’amore in Houellebecq è l’unica forza in grado di emendare la condizione tragica dell’esistenza e il fatto che l’innamoramento sia un fenomeno transitorio, se non altro perché interessa delle creature mortali, non fa che rendere le cose ancora più dolorose.

Nel caso di Paul in Annientare, il digiuno amoroso e sessuale dura da anni e questo nonostante sia ancora tecnicamente sposato con Prudence, una donna con cui condivide un appartamento e che vede molto di rado. La moglie si è distaccata da lui dopo essersi convertita al veganesimo radicale e aver aderito alla religione neopagana Wicca, due eventi che l’hanno condotta verso una vita asessuata. Quando le cose fra i due incominciano a cambiare in meglio il narratore osserva “Un padre giudice a Versailles, con una prima casa a Ville-d’Avray e una di villeggiatura in Bretagna, gli studi al Sainte-Geneviève, poi a Sciences Po e all’ENA, in fondo non c’era nulla di sorprendente nel fatto che Prudence fosse diventata asessuata e vegana. Era il suo sforzo attuale per ritrovare la sua femminilità a essere eccezionale”.

I rivoli della decadenza sono numerosi, sono destini famigliari, pratiche quotidiane e convinzioni sociali, sono debolezze occasionali e vizi protratti. I segni della decadenza attraversano le riflessioni di Paul e le vite della sorella convintamente cattolica e del marito un ex notaio vicino al Fronte Nazionale, così come si scorgono in quella del fratello restauratore di arazzi e continuamente umiliato dalla moglie, una giornalista woke egoista e non particolarmente brillante che nonostante il marito non fosse affatto sterile ha preferito ricorrere all’inseminazione artificiale perché desiderava un figlio nero.

La decadenza in Annientare è l’aria che si respira, è l’insoddisfazione generale, l’incapacità di individuare una singola causa scatenante e di conseguenza l’impossibilità di intravedere una possibile soluzione. Il problema è che un singolo colpevole non c’è, neppure la tecnologia digitale può essere considerata l’unica responsabile della situazione, nonostante Paul abbia gioco facile nel chiedersi “A che serviva installare il 5G se non si riusciva semplicemente più a entrare in contatto, e a compiere i gesti essenziali, quelli che permettono alla specie umana di riprodursi, quelli che ci permettono anche, a volte, di essere felici?”. Il punto è più complesso e di lungo periodo, l’obbiettivo polemico è il peso della libertà assoluta, la dittatura infelicissima della felicità ad ogni costo ovvero l’individualismo fatto sistema nella contemporaneità degli eterni bambini.

Un’epoca in cui il consumo si propone di risolvere ogni problema, una promessa che si fonda però sul fatto di non poter essere mantenuta ed è quello che lo scrittore Frédéric-Beigbeder, grande amico di Houellebecq, definiva il terrorismo della novità che serve a vendere il vuoto. Quello che manca è qualcosa di più profondo e insondabile, ovvero Una forza oscura, segreta, la cui natura poteva essere psicologica, sociologica o semplicemente biologica, non si sapeva cosa fosse ma era terribilmente importante perché da essa dipendeva tutto il resto, la demografia come la fede religiosa e, in definitiva, la voglia di vivere degli uomini e l’avvenire delle loro civiltà”.

Paul riflette anche sul fatto che il boom di natalità nel secondo dopo guerra – ovvero dopo massacri che avrebbero dovuto mostrare tutta l’insensatezza della condizione umana –  si possa  spiegare solo con il carattere ideologico, politico e morale della seconda guerra mondiale “Per quanto sanguinosa potesse essere stata, la lotta contro il nazismo non si era limitata al possesso dei territori, non era stata una lotta assurda, e la generazione che aveva trionfato su Hitler lo aveva fatto con la chiara consapevolezza di combattere dalla parte del Bene. La seconda guerra mondiale quindi era stata non solo una guerra estera come tutte le altre, ma anche in un certo senso una guerra civile, dove ci si batteva non per mediocri interessi patriottici, ma in nome di una certa visione della legge morale”.

Siamo qui vicini al centro del pensiero del pensiero di Houellebecq: il bisogno di una fondazione morale.  Lo scrittore francese consiglia di leggere i suoi libri in ordine cronologico perché più volte è tornato sugli stessi argomenti, cercando di migliorarsi e di illuminare aspetti che sente di aver mancato al primo tentativo. Così la scienza che supera i limiti umani de Le particelle elementari appare anche in uno dei suoi libri migliori, ovvero La possibilità di un’isola. Allo stesso modo il turismo è al centro sia di Lanzarote che di Piattaforma e l’Islam appare in Piattaforma e poi, più approfonditamente, in Sottomissione. La distopia politica di Sottomissione riemerge in Annientare, così come l’ampliarsi del mondo relazionale a cui si assiste nel nuovo libro potrebbe essere anche letto come il successo della cura farmacologica al centro di Serotonina, visto che notoriamente la depressione richiude le persone in sé stesse, distaccandole degli altri. Serotonina a sua volta è una versione più anziana, meditata e meno poetica di Estensione del dominio della lotta. Annientare infine si contamina con il genere (il thriller) proprio come La carta e il territorio incrociava il giallo durante l’indagine attorno alla morte violenta di Michel Houellebecq personaggio letterario.

Le linee che si possono tirare sono numerose, il punto però è che in tutti i romanzi di Houellebecq i temi ritornano, si sovrappongono, si completano e talvolta si smentiscono anche a vicenda, in special modo quando la narrazione si sposta nel futuro prossimo e si produce in scenari scientifici, politici e socio-economici. Mappe poste sopra territori ancora distanti e che in quanto tali durano giusto il tempo di un romanzo. Quello che invece resta, il segnale coerente, è lo spaesamento, il senso di mancanza, la determinazione a parlare nei romanzi delle cose più serie e importanti, ovvero l’amore, la morte e la mancanza di senso, prima di tutto. Non si dà slealtà parlando di cose ultime, sosteneva il nostro Giorgio Manganelli e su Houellebecq si può dire molto ma di certo non che sia uno scrittore sleale, prima di essere romanziere è un poeta e, benché lui credo lo negherebbe con forza, un filosofo.

Ed è proprio nel suo modo peculiare e intransigente di concepire il romanzesco che Houellebecq fa convivere queste due propensioni fra loro così antitetiche; il risultato è proprio lo stile immediatamente riconoscibile che compenetra ogni opera, creando una rete interconnessa.  Uno stile che è stato odiato da molti, soprattutto in Francia e soprattutto quando la carriera di Houellebecq conosceva i primi grandi successi, ma che è amato da autori e lettori in tutto il mondo, il che lo rende senza alcun dubbio lo scrittore francese vivente più noto.

Nonostante Houellebecq sia fondamentalmente un romantico che mette al centro della sua scrittura una visione fortemente morale dell’esistenza, la sua opera è stata spesso letta come una sorta di apologia del nichilismo, il che è paradossale se si considera che la distruzione dei valori è precisamente l’oggetto polemico di tutto il suo lavoro. Aiuta all’equivoco la propensione di Houellebecq a raccontare la condizione umana senza accomodamenti, una narrazione dove nulla viene taciuto o edulcorato, semmai, anzi, estremizzato.

Houellebecq è anche programmaticamente alieno ai modi pacati e alle convenienze borghesi, tanto che Yasmina Reza, altra grande scrittrice e sua sostenitrice della prima ora, lo ha definito “non addomesticato”. Creatura eminentemente mediatica proprio perché antimediatico (definizione di Daniele Schneidermann), già ribattezzato “Cane Droopy in versione cannibale”, Houllebecq si aggira ormai da decenni ai piani alti della letteratura francese, prima come un ospite indesiderato e poi come improbabile figura di vertice, sempre avvolto nel suo eterno parka Camel Legend.

Alle frequenti incomprensioni a livello mediatico (i lettori sembrano capirlo, come talvolta accade, meglio degli addetti ai lavori), si aggiunge il possibile equivoco che può generare in alcuni la precisione, questa sì quasi documentaria, con cui Houellebecq ha sempre raccontato il sesso nei suoi libri, indisponendo coloro che preferiscono elisioni o, peggio, scelte linguistiche pudibonde. In Houellebecq non c’è rischio che un culo venga rieticchettato “natiche” o che vengano prese altre scelte tragicomiche e tuttavia diffuse in quella letteratura contemporanea che spesso si rivela ben più puritana del suo tempo storico.

In una lettera di ringraziamento di qualche anno fa a Salman Rushdie, Houellebecq confessava di non riuscire a liberarsi dell’idea “frequente nelle persone popolari e un po’ anziane” che ciò che è scritto sul giornale sia vero. Una ribellione ironica ai nonsense della comunicazione contemporanea, alla sciatteria del giornalismo e al surrealismo del marketing, attraversa in effetti tutte le opere di Houellebecq. Dopo aver letto Piattaforma ad esempio, diventa impossibile leggere una Guida Routard senza ridere. Questa resistenza piccata dei personaggi nei confronti della voce della società viene messa in scena proprio perché i discorsi dall’alto sono presi estremamente sul serio.

Questa voce fuori campo faceva in certo senso parte del determinismo sociale tipicamente houellebecquiano e per questo colpisce che sia pressoché scomparsa nel mondo di Annientare. Rispetto all’oppressione grigia, impiegatizia e anonima dei tempi di Estensione, l’era in cui si svolge Annientare ha visto la moltiplicazione infinta delle voci ma, sorpresa delle peggiori, si è scoperto che questo apparente miracolo non ha generato intelligenza ma ulteriore appiattimento, ha piegato le individualità alla statistica, alla misurazione tecnologica, e ha rivelato tutta la pochezza di cui siamo fatti. Il mondo è più colorato e ricco di offerte ma questo non sembra affatto averlo reso un posto meno disperato, anzi. La voce della società a cui opporsi nella convinzione che in fondo l’uomo sarebbe migliore di così è scomparsa per ricomparire nascosta dentro tutti noi. Opporsi con una battuta tagliente non serve più a niente, mancano i presupposti, manca l’esternalità. Anche per questo durante un viaggio in treno Paul pensa che il suo stesso ministro “Si sarebbe sentito a disagio con quegli hamburger creativi, quegli spazi zen dove ci si poteva far massaggiare la cervicale durante il tragitto ascoltando il canto degli uccelli, quella strana usanza di etichettare i bagagli “per motivi di sicurezza”, insomma, con la piega generale che le cose avevano preso, con quell’atmosfera pseudo-ludica, ma in realtà di una normatività quasi fascista, che aveva a poco a poco infettato ogni piega della vita quotidiana”.

In Annientare sembrano finite anche quelle speranze che a lungo Houellebecq aveva riposto nella tecnologia dopo averla correttamente individuata come il vero motore della storia, in ogni caso ben più della filosofia, della politica e dell’economia. Houellebecq non è mai stato un luddista, nel bilocale in cui abitava a inizio carriera erano accatastati computer e numerosi oggetti tecnologici, il protagonista di Estensione era un informatico. La scienza della vita e della morte, la scienza che creava mondi, che mutava le specie, salvandole da sé stesse, sembra però aver lasciato il posto ad una tecnologia minima eppure onnipresente, la tecnologia dell’informazione e delle app che si nutrono di attenzione umana. Nulla a che vedere con la clonazione, l’immortalità ma neppure con la meccanica. È questo il mondo senza una voce univoca e senza prospettive di Annientare, un mondo in cui la malattia del corpo arriva quando in fondo è diventato evidente, una volta di più, che l’unica isola su cui rifugiarsi è l’amore di una donna.

Fra i tratti salienti di questo mondo in decadenza lenta e a tratti festosa – seppure in quella maniera segretamente angosciata che si confà alla vita dei grandi debitori – si è assistito anche a un altro rovesciamento valoriale significativo, l’instaurazione del mito dell’infanzia.

“Attribuendo più valore alla vita di un bambino, quando non abbiamo nessunissima idea di cosa diventerà, se sarà intelligente o stupido, un genio, un criminale o un santo, neghiamo ogni valore alle nostre azioni reali. I nostri atti di eroismo o di generosità, tutto ciò che siamo riusciti a realizzare, i nostri traguardi, le nostre opere, niente di tutto questo ha più il minimo valore agli occhi del mondo; e ben presto non ne ha più nemmeno ai nostri occhi. In questo modo priviamo la nostra vita d’ogni motivazione e di ogni senso; è puro nichilismo.”.

In Annientare appaiono anche alcuni luoghi idealtipici della Francia, come una casa avita immersa nelle vigne nel Beaujolais; tutto questo è abbastanza inconsueto in Houellebecq che a Parigi vive in un’anonima torre nel quartiere cinese nei pressi di Place d’Italie e in “Rester vivant”, la mostra delle sue fotografie che si è tenuta qualche anno fa al Palais de Tokyo, si è concentrato soprattutto su periferie, supermercati, villaggi turistici e parcheggi. Oltre che sul suo amatissimo cane Clément, naturalmente.

Ulteriore anomalia in Annientare è la cura nelle descrizioni degli ambienti sociali e delle pratiche mediche, un dettaglio frutto di ricerche estese, le stesse che Houellebecq in passato si era vantato di non fare, o comunque di ridurre al minimo, al contrario degli scrittori americani. Se le descrizioni scientifiche in passato apparivano quindi come il controcanto alla voce della società ottenuto attraverso l’ingegno dello scrittore e il recupero di autori del passato, in questo nuovo romanzo la presenza del dato di realtà è più forte e l’impianto di Annientare complessivamente ne guadagna. Per via di tutte queste innovazioni stilistiche, questo romanzo che pur contiene tutti i capisaldi del pensiero del suo autore potrebbe curiosamente rivelarsi quello più gradito ai lettori che storicamente non hanno mai amato Houellebecq, un po’ come è recentemente successo in un altro campo con “È stata la mano di dio” di Paolo Sorrentino. Mi sento però qui di rassicurare anche i lettori appassionati: anche con le novità che introduce, Annientare rimane comunque un romanzo decisamente Houellebecquiano.

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Dentro l’odio – Intervista

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Questa intervista è tratta da un più ampio approfondimento

di Claudia Consoli e Antonella Sbriccoli pubblicato sul sito di Mondadori

Cominciamo dal titolo per inquadrare il tuo monumentale romanzo. Quali sono secondo te le principali forme di odio del nostro tempo?

Nella nostra epoca sono finite le grandi narrazioni, le risposte univoche, le persone hanno la libertà e il peso (le due cose vanno sempre assieme) di cercare il proprio personale senso della vita. Al tempo stesso la società occidentale tende a eliminare dalla sfera della consapevolezza il dramma, la morte, il sacrificio e sembra avere un solo mandato imperativo: essere felici. Un’esortazione che arriva senza il libretto d’istruzioni, per così dire, ed è un vero lavoro dopo il lavoro, fenomeni come il turismo di massa, il ritorno del pensiero magico, l’individualismo spinto fino a una dimensione patologica sono solo alcune delle risposte diverse che vengono date a questo impegnativo – e storicamente nuovo – mandato culturale.

Questo quadro culturale si fonde con la rivoluzione digitale: internet, e in particolar modo i social network, hanno creato un nuovo piano orizzontale della comunicazione, dove chiunque può esprimersi pressoché liberamente e raggiungere potenzialmente grandi pubblici. In sostanza mezzi di comunicazione universali e nessuna gerarchia del discorso, anzi, una progressiva disgregazione del logos a favore di forme più immediate di comunicazione. Il risultato è la tensione che vediamo online, la tribalizzazione della società in bolle e clan che non comunicano fra di loro, si limitano ad odiarsi per partito preso, anzi è proprio l’automatismo nella direzione del loro odio a definire i confini del gruppo. L’esistenza di un pluralismo si dà solo all’interno di un quadro di regole condivise da tutti, regole che oggi sono sotto l’attacco del potere primordiale dei clan, la cellula primitiva della società umana che si ripresenta nella realtà digitale. In parte si tratta anche di un’illusione ottica dovuta alla pervasività dei mezzi di comunicazione digitale – in grado di illuminare tutto e moltiplicare all’infinito ogni segnale – perché complessivamente la nostra è una società dove la violenza fisica diminuisce, aumenta però – quasi esponenzialmente – quella verbale e simbolica, un avvitamento in cui estremisti e guerrieri del politically correct non fanno che rinforzarsi a vicenda. Non è detto che a un certo punto tutta questa energia che è nell’aria non si scarichi a terra.

Odio esplora a fondo alcuni temi chiave della contemporaneità, due fra tutti il modo con cui la tecnologia viene piegata ad ascoltare e misurare la vita intima degli esseri umani, e il commercio sfrenato dei dati, petrolio della rete.  Quanto credi che le persone siano davvero consapevoli di questi fenomeni? E cosa vorresti dire loro con il tuo romanzo?

 “Odio” è la biografia immaginaria, ma verosimile, di un giovane uomo con una storia da errore giudiziario alle spalle che si costruisce un posto di spicco – dopo aver iniziato la sua età adulta in tutt’altra maniera – in uno dei pochissimi settori che offrono grandi opportunità alle persone della sua generazione: il commercio di dati personali. Il libro ha molti strati, quindi il percorso professionale è solo una parte di una vicenda umana molto più complessa e articolata, ma la vera natura del suo lavoro, le sue potenzialità, sono all’inizio oscure anche allo stesso protagonista e questo dà la possibilità ai lettori di scoprirle assieme a lui. Non credo ci sia una consapevolezza diffusa su questi temi, forse dal punto di vista dei dati oggi viviamo in un periodo per certi aspetti simile a quello in cui non esisteva alcuna norma antinquinamento perché nessuno si poneva neppure il problema. In questo caso però non è detto sia possibile tornare indietro o anche solo creare delle norme efficaci: i dispositivi e le piattaforme che sorvegliano ogni istante della nostra vita sono ormai troppo pervasivi, ci servono a organizzare la vita, a lavorare, a essere raggiungibili, a stare con gli altri e ci danno in cambio importanti ricompense neurologiche in grado di generare dipendenza. Rinunciarvi del tutto in questo momento storico significherebbe condannarsi all’eremitismo, anche potendoselo permettere non è detto che sia una scelta auspicabile, in ogni caso è un prezzo enorme da pagare, il che non fa altro che evidenziare il potere smisurato dell’industria digitale.

Nel libro ci racconti che la più antica delle tecnologie umane è il capro espiatorio. Quali sembianze prende nel tuo libro e nella società che descrivi – così attuale e distopica allo stesso tempo?

Nella crisi del logos in occidente di cui parlavo prima, c’è anche la crisi di tutto l’apparato deputato a creare senso all’interno di una società: c’è scarsissima fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica, un forte declino della diffusione di religioni e ideologie unificanti. Tutto questo è accompagnato dall’emergere di una concezione post-modernista della verità secondo la quale ogni gerarchia interna alla società è il frutto esclusivo di una lotta amorale per il potere.

Si può vedere questa tendenza in azione a molti livelli, dalle università anglosassoni dove le persone non sono più considerate come individui dotati di diritti inalienabili e uguali di fronte alla legge ma come membri di questa o quella maggioranza/minoranza, gruppi che li definiscono in toto, oppure in quei movimenti populisti che denunciavano (almeno finché non sono andati loro al potere) la corruzione costitutiva di ogni politica, o, a un livello ancora più immediato, si ritrova in quei genitori che insegnano ai loro bambini che non ci sono regole ma solo la capacità di farsi rispettare, a qualsiasi costo.

Sono solo tre esempi della stessa disgregazione di un senso condiviso, un mutamento filosofico su cui si è innestata, a fare da moltiplicatore, la rivoluzione digitale che ha reso possibile il piano orizzontale del discorso di cui parlavo prima. A questo punto ci troviamo in una situazione che ricorda per alcuni aspetti – non tutti, è una tendenza, non ancora una realtà compiuta – lo stato pre-civile di guerra di tutti contro tutti, una situazione in cui manca un principio unificante.

Nell’antichità l’uomo ha sempre risolto il problema di questa tensione mimetica fra individui diversi (tutti vogliamo le stesse cose che vogliono gli altri, ma le risorse sono limitate) attraverso il principio del capro espiatorio, una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Nel tempo la vittima viene santificata e diventa una divinità, fino a quando non si perde la memoria del sacrificio e rimane solo un nuovo dio, il ricordo della violenza collettiva è cancellato. Questa è la lettura del meccanismo fondativo del capro espiatorio che faceva l’antropologo francese René Girard: De Sanctis la sposa in toto dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale.

Come autore mi interrogavo da molto tempo sulla spietatezza che mostriamo sui social, sulla tendenza che abbiamo più o meno tutti ad accanirci su persone di cui in fondo non sappiamo niente, se non uno scampolo di informazione apparentemente controverso. Quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard (ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle sue tesi nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani), ho capito di essere sulla buona strada.

Orgoglio, angoscia, tensioni irrisolte, ambizione: Marco De Sanctis, il protagonista del tuo romanzo, è talmente complesso da apparire inafferrabile. È colui che nessuno conosce ma che ci conosce tutti. Com’è nato questo personaggio? E quali sono le cose che lui odia di più?

 Marco è un personaggio articolato e soprattutto in divenire, come ogni personaggio romanzesco che si rispetti il suo punto di partenza è molto distante da quello di arrivo e anche dalle posizioni che occupa nelle varie fasi della storia.

La sua caratteristica fondamentale credo sia la voglia di applicare la propria intelligenza al mondo, anche se questo significa per lui mettersi contro tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento e contro il suo gruppo di appartenenza. Non è un personaggio che fugge dal suo tempo, un topos molto praticato nella letteratura italiana contemporanea, bensì una persona che prova a dare una chance alla sua epoca, a entrarci dentro e poi accettare le conseguenze della sua scelta. Il dispiegarsi inesorabile di queste conseguenze è il romanzo.

Per quanto riguarda quello che odia, direi le persone incapaci di mettere in discussione le proprie credenze e, ancora di più, quelle che parlano continuamente di ideali astratti e nobilissimi e poi nella pratica si comportano come dei capi tribù.

Da questo punto di vista De Sanctis è di un’onesta intellettuale che qualcuno potrebbe trovare anche disturbante, perché in genere tutti ammantiamo le nostre vite di storie e storielle che ci aiutano ad edulcorare la dura realtà delle cose, lui invece sembra essere costitutivamente incapace di questo movimento cosmetico. Lui stesso è quindi la prima vittima di questa intransigente lucidità perché la vita di uomo fuori dall’atto di raccontarsi storie è davvero molto dura. La sua teoria del capro espiatorio va letta proprio in questo senso: non è una teoria scientifica sulla realtà, ma una grande narrazione che fornisce a Marco degli appigli operativi, una mappa per un mondo che ne è privo.

Le mappe che la letteratura può ancora ambire a costruire sono esclusivamente mappe biografiche, esempi di esseri umani che qui e ora si confrontano con il loro tempo. La presa di un senso superiore, assoluto, universale, è ormai destituita di plausibilità se non come capacità di sentire il respiro del tempo e interrogarsi sugli obblighi di una biologia forgiata in milioni di anni di evoluzione, proprio là dove tutto sembra futuristico riemergono per questo istinti antichi: sono parte indelebile di noi. L’esergo al romanzo, una frase proprio di Girard, è chiaro a questo riguardo: “L’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura”. La tensione qui non è solo nei confronti del post modernismo relativista in cui si è formato intellettualmente il protagonista del romanzo e che diventa sempre più opprimente in Occidente attraverso il politically correct, ma anche verso il Mondo Nuovo in cui entra: quello della tecnologia, un ambiente che coltiva, in modo neppure tanto nascosto, l’idea di costruire un uomo radicalmente nuovo, un tentativo già provato molte volte nella storia della specie, sempre con esiti disastrosi. Questa volta però è un’operazione con qualche chance in più di riuscire perché ha dalla sua uno strumento potentissimo: la scienza. La biografia di De Sanctis – ovvero Odio – è sospesa precisamente fra queste tensioni, è il tentativo di una mappa personale: individuale, umana perché talvolta contraddittoria, in ultima analisi letteraria.

Anche la politica fa la sua comparsa tra le mille pieghe di questa storia. A volte è colei che manipola, altre viene manipolata. 
Esiste per te nel nostro futuro la speranza di coniugare politica e tecnologia in un modo sano o la tecnologia si è ormai irrimediabilmente trasformata nella principale arma di controllo politico?

La politica, come tutto il resto, si uniforma alle esigenze delle piattaforme sociali, se vuoi arrivare a un pubblico, essere premiato dall’algoritmo, devi conformarti alle loro esigenze che sono quelle di sfruttare gli istinti umani per tenere le persone più tempo possibile sul sito mentre gli viene somministrata della pubblicità. Questo significa semplificare e giocarsi alcune “monete” che in quell’ecosistema informativo funzionano meglio di altre, una di queste è sicuramente l’odio, l’altra è il suo apparente contrario, ovvero il moralismo, che poi è l’odio ricoperto da una presunta superiorità etica. Complessivamente è un sistema di incentivi che in politica finisce per premiare i cialtroni, a destra come sinistra. Oggi le parti politiche si scontrano con toni sempre più accesi, ma chi fornisce la matrice di questa nuova politica sono sempre le piattaforme. O obbedisci o non esisti e quindi non prendi voti. Lo stesso principio si può applicare a molti altri settori professionali, ma per quanto riguarda la politica ci stiamo giocando la democrazia occidentale come la conoscevamo per massimizzare i ricavi pubblicitari delle piattaforme. Questo, per me, è il principale tema politico della nostra epoca, il problema costitutivo, diciamo.

Nel libro Marco De Sanctis fa esattamente questo movimento, dopo aver lavorato per un po’ per la politica si rende conto che il vero potere oggi sta altrove, allarga lo sguardo dal dipinto alla cornice e si rende conto di quanto quest’ultima sia importante nel determinare il contenuto del quadro. Nel momento in cui il medium è diventato universale e si trova nelle tasche di chiunque, l’affermazione di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” ha assunto un grado di assolutezza sconosciuto nell’era delle emittenti radio televisive e della stampa.

Sentimenti e sessualità s’intrecciano lungo i salti temporali del romanzo e diventano a loro volta strumenti per esercitare il potere sugli altri. Esiste un esempio di amore “puro” all’interno di Odio? E, più in generale, può esistere secondo te amore slegato dalla dimensione di controllo? 

 L’amore è il principio unificante per eccellenza, è la forza di attrazione nascosta nella biologia, è il principio generatore posto al cuore della trama profonda della vita, è l’unica cosa a cui è possibile aggrapparsi in tempi di temi di Kaos, in particolar modo in un universo privato di dio l’amore rimane l’unico principio universale. Quanto al controllo, un personaggio ossessionato dal controllo in questo campo era il protagonista di Lascia stare la gallina, ma in Odio controllo e amore non sono temi che si incontrano, c’è questo amore autentico e profondo per una donna di nome Federica e una serie di incontri meramente strumentali, che giustamente De Sanctis definisce “incontri fra egoismi opposti”, che sono esattamente la cifra del sesso nel mondo post modernista, se ogni cosa è potere allora anche il sesso sarà una transizione di mercato in cui si organizza un negozio temporaneo fra quantità di potere compatibili, niente di più. In altri termini il trionfo dell’egoismo. La cosa è vista dalla prospettiva di un uomo, perché De Sanctis è un uomo ma potresti cambiare il suo punto di vista con uno femminile e non cambierebbe nulla. È una condizione trasversale. Non è un caso che solo quando De Sanctis abbandona questo genere di visione dell’esistenza che gli è stata insegnata all’università, s’immerge nella vita pratica e si apre alla possibilità che esistano delle trame immutabili nella storia della specie umana, si dischiude davanti a lui la possibilità di un amore autentico.

Decadente, ricoperta di spazzatura e dominata dai gabbiani: Roma è la quinta scenica del tuo romanzo e ci ricorda le atmosfere da fine impero. Come scrittore che rapporto hai con questa città?

Per una persona nata e cresciuta al Nord, seppur con un genitore del profondo Sud, Roma è, soprattutto all’inizio, una creatura molto sfidante, ci sono tutta una serie di cose che in altri posti sono semplicissime che a Roma diventano di una complicazione notevole, il lavoro di vivere diventa un compito estremamente impegnativo, la quantità di cose che non funzionano è talvolta annichilente. Detto questo se si cambia paradigma culturale, si rallenta il ritmo di vita, si assume un atteggiamento più fatalista è un posto dove si può anche arrivare a vivere bene, la bellezza credo che nessuno la metta in discussione e in fondo sono anche contrario all’idea che tutti debbano uniformarsi all’impersonale paradigma efficentista del capitalismo anglosassone – distruggendo millenni di storia culturale in ogni parte del mondo – e quindi se pure apprezzo molto l’organizzazione e il cooperativismo emiliano devo riconoscere che c’è una forma di resistenza allo Zeitgeist anche nel familismo romano, nell’indolenza come regola di vita. In un certo senso in Occidente Roma è la cosa più simile al residuo di un’epoca precedente, anche questo la rende una specie di organismo vivente inafferrabile che sembra davvero in grado di dare l’illusione dell’eternità. È una città che spesso ti fa arrabbiare e poi però è in grado di darti ricompense del tutto inaspettate, è la perenne eccezione alla regola. Questo è anche il motivo per cui Marco De Sanctis la sceglie come sede per la sua azienda, gli piace l’ironia della cosa ma anche quella specifica tonalità umana che di certo non potrebbe più trovare a Londra.

Sei autore di romanzi, testi teatrali, reportage e sceneggiature: come convivono nella tua esperienza le tante forme della scrittura? E ce n’è una che senti più tua?

Il romanzo, senza dubbio. Le altre forme di scrittura che citi possono essere divertenti e appaganti, servono ad acquisire informazioni non solo sulle cose ma anche sugli uomini e a sviluppare le proprie capacità ma il romanzo è la forma più completa dove la mia ricerca si può esprimere più a fondo e senza mediazioni.

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