REPORTAGE UNTI | Daniele Rielli
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REPORTAGE UNTI

“STORIE DAL MONDO NUOVO” IN LIBRERIA

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(2° edizione)

 Dicono di “Storie dal mondo nuovo”

Tanti pezzi diversissimi di mondo tenuti insieme dalla capacità di guardare i fatti e tradurli in narrazione, genere nel quale Rielli eccelle come Carrère o Tom Wolfe .

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Rielli aggiorna al terzo millennio un’idea classica del reportage narrativo, quella novecentesca dei Parise e Vassalli, Ceronetti e Piovene, Manganelli e Tabucchi fino a Tiziano Terzani. Brillantezza linguistica, scelta delle fonti, incisività, ritmo, indipendenza e libertà di pensiero sono le sue armi

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Alla mente torna il geniale Foster Wallace di “Considera l’aragosta

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Rielli possiede un controllo della lingua che lo sottrae ai velleitarismi pirotecnici che sono, invece, uno degli abiti ricorrenti della prosa italiana attuale

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Raramente ho trovato qualcosa di più inusuale e godibile nella descrizione della realtà. Daniele Rielli, ricordate questo  nome

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Daniele Rielli è la prova che in Italia anche il talento conta

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Si ride e si spalancano i neuroni

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Magnifici reportage

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Storie dal mondo nuovo, un rimedio contro la post-verità

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 “STORIE DAL MONDO NUOVO”

(Da Adelphi.it) I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell’elefante – nel cuore della Puglia. L’incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l’inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online. Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere.

alcune interviste a proposito di “Storie dal mondo nuovo”

La Stampa (video) 

La Lingua Batte- Radio Rai Tre

Minima Moralia
Comedy bay

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Sono stato in gita a palazzo Chigi

( pubblicato su 7 – Corriere della sera,  il 23 febbraio 2018)

La prima cosa che ti dicono all’ingresso visitatori di Palazzo Chigi è «spegnere il cellulare»; la prima cosa che fanno tutti appena superato il metal detector è fotografare il cortile con il cellulare. Di stranieri, nel gruppo di visitatori di cui faccio parte, non ne vedo, il che è un po’ un peccato perché sarebbe stata per loro una rapida lezione di italianità. Durante la mia visita turistica a Palazzo Chigi di cose da immortalare e rivendere a stati canaglia, Isis e Spectre varie non ne incontrerò comunque nessuna. Il punto delle foto compulsive – nel gruppo c’è pure un signore con una reflex che appena rimane solo spara rapide sequenze furtive, come se nessuno si accorgesse dell’accrocchio di due chili che ha a tracolla – è un altro. Il cortile, come molti altri ambienti che s’incontrano durante la visita, è uno dei luoghi “della televisione”, di quelli cioè che si vedono durante il telegiornale e sono quindi oggetto del meccanismo di riconoscimento, sollecitato dalla guida, da parte del pubblico di visitatori. Il tour di Palazzo Chigi si può fare due sabati al mese da ottobre a marzo, previa prenotazione, con largo anticipo per i grandi gruppi, anche due giorni prima se siete da soli (l’unico da solo peraltro sono io).

CHE TIPO DI PERSONA, VI STARETE CHIEDENDO a questo punto, mentre è in gita a Roma, città dal patrimonio artistico che tende a infinito, decide di dedicare un’ora alla visita di Palazzo Chigi? Nel caso del mio gruppo l’età è alta (diciamo dai cinquanta in su), gli accenti quasi tutti del nord con una netta predominanza di veneti – un po’ a sorpresa un po’ no, perché spesso ci attira proprio ciò che odiamo, temiamo e mette aliquote sul reddito che raggiungono il 43%. Da alcune giacche spuntano quotidiani di destra e c’è un manipolo, molto ridotto, di specializzati in “palazzi del potere” che si sono già sparati Camera, Senato e Quirinale. Fra di loro anche uno dei pochi giovani dell’intera compagine, un ragazzo segaligno che sembra sapere tutto e si guarda attorno come si trovasse in un luna park. Il tempo, confido, lo renderà ironico e disilluso quanto gli altri. O presidente del Consiglio. Per il resto si tratta appunto di vedere luoghi che in forma catodica abbiamo già visto migliaia di volte, entrare sul set del nostro House of Cards. La guida è una giovane donna che si trascina dietro il figlioletto alle prese con «un attacco di mammite, è la prima volta che succede una cosa del genere», garantisce mentre chiede scusa.

IL PUBBLICO SI DIVIDE FRA indifferenti e una quota di nonne che si producono in «uuuhhh» «ihhhhh» e «che carino», antico riflesso pavloviano che si scatena in presenza di pupo italico indisciplinato, cosa che senza dubbio nel tempo ci renderà competitivi nei confronti dei cinesi. Nonostante abbia una creatura appesa a una gamba, la guida snocciola storie, nomi e dati come una che sa il fatto suo: volendo si può classificare questa capacità come lezione di italianità n.2. Si parte dagli Aldobrandini che costruiscono il palazzo abbattendo un gruppo di edifici preesistenti, si passa per i Chigi che lo rialzano in una di quelle gare di altezza degli immobili che contraddistinguono le civiltà che ancora non hanno scollinato verso la fase decadente, e di passaggio in passaggio si arriva all’attuale destinazione d’uso, piuttosto recente, visto che è datata 1961. Bisogna anche tenere presente, e il manipolo di feticisti dei “palazzi del potere” annuisce compatto quando la nostra madre-guida lo ricorda, che di tutte le sedi istituzionali Chigi è la più spoglia – i precedenti proprietari si sono portati via quasi tutto prima di venderlo allo Stato – e forse è pure la più brutta, ma questo, specifico, lo aggiungo io.

Una caricatura dell’autore con il busto di De Gasperi. Vignetta di Giovanni Angeli
 (caricatura di Giovanni Angeli)

LA DELUSIONE MAGGIORE COMUNQUE per noi turisti del già visto è la sala stampa, quella dove vengono riprese le conferenze dopo le riunioni del Consiglio dei ministri. È piccolissima e il soffitto fa un effetto cartongesso non proprio di grande classe. La cosa non sfugge a nessuno, tanto che partono le tesi su quale complessa teoria d’illusioni ottiche debba essere stata necessaria per dotare di autorevolezza i filmati che da questo luogo giungono nelle nostre case: «Sono gli specchi» avanza qualcuno. «Anche le luci», aggiunge la guida che comunque chiosa «è la sala più tecnologica del palazzo» il che, concretamente, significa che ci sono quattro telecamere. Va infatti tenuto presente che Chigi, almeno nella parte che ci mostrano, non è proprio la sede di Google, la cosa più avanzata tecnologicamente essendo le berline di rappresentanza parcheggiate nel cortile. Sulle postazioni dei ministri nella sala del Consiglio ad esempio fanno capolino vecchi computer portatili color violetta e i microfoni hanno tutta l’aria di aver vissuto le notti magiche di Italia 90. Se poi siete di quelli che credono al simbolismo sappiate che la “sala delle scienze” qui è un’anticamera con un tavolo e una stampante. Particolari di un potere in netta dissonanza con il suo tempo che però naturalmente non turbano nessuno, al contrario vibriamo tutti all’unisono in virtù del medesimo, ovvio, retropensiero quando ci viene mostrato lo stemma dei Chigi «molto simile al logo di una moderna istituzione bancaria». Si tratta in effetti di una piccola piramide di colli che ha giusto una fila in più rispetto allo stemma del Monte dei Paschi di Siena, città che ha dato i natali alla famiglia dei Chigi, il che spiega la somiglianza.

E COSÌ MENTRE C’È CHI PENSA che in fondo era destino, ci illustrano il solenne cerimoniale di fronte allo scalone d’onore, per l’occasione percorso a pancia in giù dal bambino di cui sopra. A questo punto il bambino viene rimosso da un uomo e tutti chi chiediamo «ma sarà un parente?» e quando la guida continua per nulla turbata dal ratto del puero concludiamo che sì, sarà senza dubbio un parente. Non riusciamo a vedere il salottino giallo perché dentro c’è il presidente del Consiglio (chi è che è adesso? Gentiloni, ah già), ma in compenso vediamo diverse altre sale, compresa appunto quella del Consiglio dei ministri dove a parte la tavola rotonda e le sedie ci sono tre cose tre: una copia della Costituzione, un busto di De Gasperi («guarda che naso tipicamente romano» Alcide De Gasperi, luogo di nascita: Pieve Tesino, Trento), e una bacheca dove per qualche motivo non è custodito, chessò, l’elenco dei Nobel italiani, ma le medaglie delle Olimpiadi che si sono svolte nel nostro Paese prima dell’avvento di Virginia Raggi.

La vera hit comunque si rivela la sala dove sono appese alle pareti le foto di tutti i presidenti del Consiglio dall’Unità ad oggi. «Guarda che giovane il Berlusca, guarda lì il Mortadella». Sotto la foto sono indicati tutti i singoli mandati di ogni presidente, e partono quindi immediatamente le classifiche complessive per vedere chi ha le statistiche migliori da quando è stato fondato il campionato. C’è anche qualcuno a cui piace vincere facile e, scrutando le date, osserva ammirato «Mussolini più di vent’anni eh». La cosa più interessante sono però forse le espressioni, le posture e l’abbigliamento degli ultimi politici che hanno ricoperto l’incarico: c’è Romano Prodi impegnato ad esprimere bonarietà tranquilla e rassicurante (ovvero a impersonare Romano Prodi), Silvio Berlusconi giovanissimo, Enrico Letta (ah già, Letta!) senza giacca, Massimo D’Alema che prova lo sguardo verso l’infinito in una parodia di Che Guevara, Mario Monti con un sorrisino rassegnato che sembra intuire cosa diranno di lui un giorno i visitatori e infine c’è un Matteo Renzi che guarda in alto a sinistra come se ad una finestra del palazzo alle spalle del fotografo stesse succedendo qualcosa di parecchio grave e inaspettato, la bocca socchiusa nel broncio di chi è un po’ sorpreso e assieme deluso da quello che vede. «Nel caso ve lo steste chiedendo, le foto vengono scelte dai diretti interessati». In effetti, me lo stavo giusto chiedendo.

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Reportage: L’anomalia

 

«Quando giochi con il limite, spari mirando a un bersaglio.

Senza il limite, il bersaglio prende vita e spara a te».

Crandell Addington a proposito del Texas Hold’em no limit

Una coppia di inglesi dalle pelli lattiginose getta pezzi di pane verso un banco di cefali, le schiene argentee s’inarcano, l’acqua si solleva, un attimo dopo gli esemplari rimasti a digiuno scattano nervosi attorno al vuoto. È giugno e sono seduto in un ristorante di Budva, in Montenegro. Un cameriere allampanato liscia con qualche parola in italiano i clienti al tavolo di fronte, un gruppo di giocatori baresi di slot che parlano con il regolamentare tono di voce troppo alto. Sono appena arrivati con un charter assieme alle loro camicie floreali impossibili e agli occhiali da sole, ordinano vassoi di pesce che domani, dopo una notte di gioco in perdita, potrebbero generare inediti dubbi di opportunità. Alle nostre spalle montagne brulle, di fronte l’Adriatico, nel mezzo una statale nuova che collega un agglomerato urbano irregolare fatto di casinò, sale scommesse, case vacanze per ricchi, e parcheggi pieni di Porsche Panamera e Range Rover nere.

Stamattina, a Fiumicino, una giovane addetta Alitalia con il badge identificativo coperto da un foglietto che recitava «Odio tutti», mi ha messo in mano il biglietto per il volo Roma-Podgorica e si è voltata prima che le facessi notare che i sentimenti più belli sono sempre quelli ricambiati. Un’ora scarsa di volo dopo, l’Embraer si è preparato all’atterraggio compiendo cerchi sempre più stretti sopra il lago paludoso alle porte di Podgorica, dove la pianura e l’acqua condividono una lunga terra di mezzo.

All’aeroporto ragazzi in maglietta hanno lanciato le valigie sui cassoni di due trattori marca socialismo reale, e dieci minuti dopo un tassista del casinò ha caricato su una Toyota Prius la mia unica valigia. Per un’ora di viaggio lui, grosso, rasato e silente, ha ascoltato dosi da centro sociale di ska balcanico, e io, medio, arruffato e sotto antibiotici, ho fissato lo schermo digitale che illustrava in tempo reale il funzionamento di un propulsore ibrido, ho guardato le case nuove di zecca con i tetti rossi di Sveti Stefan e mi sono appuntato che il primo taxi provvisto di wi-fi di bordo che prendevo in vita mia copriva la tratta Podgorica-Budva.

A un certo punto, stupito dall’ottima qualità delle strade, ho chiesto al tassista come andava l’economia.

«Male».

Poi di nuovo una lunga e ininterrotta distesa di ska balcanico.

Ora, seduto al ristorante, lancio a mia volta un pezzo di crosta lontano dal banco di cefali. Uno guizza nella mia direzione, il resto del gruppo gira a vuoto continuando a confidare negli aiuti da oltremanica. Se il livello della competizione si alza, a prosperare sarà il più forte, o colui che è in grado di vedere pezzi di pane dove fino a quel momento nessuno è stato in grado di scorgerli. Il primo è il barbaro tradizionale, che sotto sembianze sempre diverse attraversa la storia come una costante di sopraffazione, il secondo è l’espressione, della legge ugualmente darwiniana, che per la sopravvivenza talvolta l’intelligenza può più della forza. A forse cento metri da qui, nel casinò di cui sono ospite, un centinaio di emuli umani dei pesci satura un salone con il rumore incessante che fanno le pile di fiche quando le tormenti tra le dita. È in corso un torneo di Texas Hold’em no limit su due giorni, in cui ognuno dei giocatori punta a essere l’anomalia in un sistema di sconfitti. Continua su STORIE DAL MONDO NUOVO ( ADELPHI)

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MUGELLO, L’ULTIMO GRANDE RAVE (Reportage)

La pianificazione è andata avanti per mesi, attraverso un gruppo di WhatsApp. Correva via 3g una cospirazione di stampo motociclista finalizzata a presenziare al Gran Premio d’Italia 2016 del MotoGp, quello della possibile, grande rivincita di Valentino Rossi. Si trattava d’infilarsi nel centro esatto di quello che i giornali di solito liquidano come una specie di allegro sfondo colorato racchiuso nelle formule “grande atmosfera” o “popolo giallo”, oppure sintetizzano con un numero di quelli che non riescono a rappresentare nemmeno lontanamente ciò che indicano: centomila persone.

La prima cosa che penso una volta fuori dalla tenda con vista notturna sulle curve dell’Arrabbiata, è che sarebbe più corretto parlare di ultimo grande rave italiano. La notte prima del Mugello però non si suona house, techno, o drum and bass, ma motoseghe. O meglio: c’è anche musica, più o meno ovunque, ma la competizione fra dj con i muri di casse e le Husqvarna, la vincono a mani basse le seconde. Da qui si origina lo slogan ormai mitologico: «Al Mugello non si dorme» scandito ad ogni angolo, ad ogni ora: la promessa d’insonnia è la prima regola del fight club degli amici della miscela. Il biglietto d’ingresso è quello Night&Day per il prato, ovvero tutto ciò che circonda il circuito e non è né tribuna né paddock; le tende sono ovunque, anche fuori dai bagni, così come i camper.

Il pratone è una specie di anello incompleto, manca un lato, un accampamento lungo chilometri in cui gruppi di ragazzi camminano agitando le motoseghe, private della cinghia e della marmitta e spesso con l’aggiunta surrettizia di trombe d’amplificazione. Quando accelerano persone di tutte le età, e nell’ordine delle decine di migliaia, esultano. Alle volte le motoseghe crescono, diventano tosaerbe o veri e propri motori, di moto o di auto, smontati dai loro mezzi d’origine e uniti a scarichi lunghi un metro e mezzo, accrocchi che hanno due scopi: fare un rumore che attraversa la valle da pendice a pendice, ed emettere fiammate come draghi futuristi. Il rumore è il rumore, dotato quindi di un suo valore intrinseco, ma qui è anche la rappresentazione immobile della velocità.  Quando di giorno una moto sfreccia nella pista di sotto non si manifesta mai senza rumore, stridulo quello della Moto Tre, monotono quello della Moto Due, imperioso, grasso e per definizione più interessante, quello della MotoGp. E così ogni motosega è casino, ma è anche una preghiera e un riferimento alla sostanza divina e non replicabile della velocità. O almeno questo è quello che mi sembra perfettamente sensato al quarto vodka-tonic. Continua su STORIE DAL MONDO NUOVO ( ADELPHI)

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Reportage: DISRUPT

 

Whatever form it takes, the underlying propellant is an inexhaustible thirst for knowledge.

MICHAEL MORITZ

Walking around San francisco, it strikes me that this cannot end well, that combination of magical thinking, easy money, greedy investors, and amoral founders represent a recipe for disaster

DAN LYONS

Il primo dice proprio «Con questa invenzione cambieremo il mondo», come in Silicon Valley la serie HBO su un gruppo di startupper americani. Fa niente che l’olandese sul palco, qui al Tech Crunch Disrupt di Londra, stia presentando una doccia elettronica. Certo, dotata di tecnologia digitale, e di un filtro autopulente che in teoria dovrebbe permettere di farvi la doccia sette volte con la stessa acqua – una specie di fontana pubblica 2.0 –, ma la chiusa suona comunque un po’ sopra le righe. La propensione all’iperbole, solo apparentemente politico-morale, riflette in pieno lo spirito dell’economia delle startup e dell’evento organizzato da Tech Crunch, uno dei più influenti – e competenti – siti tecnologici al mondo.

Per arrivare qui, ieri sera sono atterrato in un aeroporto fuori Londra dove tutta la procedura d’ingresso è automatizzata come in una puntata di Black Mirror. Un percorso forzato dentro delle transenne mi ha diretto dentro dei tornelli, lì una telecamera nascosta dietro un vetro ha analizzato il mio volto, mentre un’altra scannerizzava il mio passaporto, infine, con un lieve rumore pneumatico, la barriera si è aperta permettendomi l’ingresso in Gran Bretagna senza che nel processo avessi avuto a che fare con alcun essere umano.

Ora Jordan Crook, una ragazza che ricorda la standup comedian Amy Schumer e che alla veneranda età di ventisette anni è presentatrice e senior writer di Tech Cruch, prende in giro con ironici modi da maschiaccio il pubblico per lo scarso entusiasmo. I presenti in effetti ascoltano attentamente e prendono appunti sui loro MacBook (entrare qui costa 600 euro al giorno, più IVA), ma non ruggiscono in maniera primordiale ogni volta che qualcuno mostra una nuova funzionalità su uno schermo. Non c’è insomma il clima a metà fra un sabba e un discorso di Mel Gibson in Braveheart che contraddistingue i Keynote Apple. Siamo in Europa, e si sente. Atteggiamenti della platea a parte, il Disrupt del titolo starebbe a significare che qui le cose si cambiano sul serio, si ricomincia da zero, si cambia il mondo. «In meglio» è un postulato automatico che non deriva da valutazioni filosofiche, politiche o da bar, ma in modo molto lineare dal successo sul mercato dell’azienda con propositi rivoluzionari: se il nuovo servizio genera profitti e diventa «un unicorno», ovvero supera la valutazione di un miliardo di dollari – il famigerato billion sotto il quale qui non sei nessuno – allora il cambiamento è stato necessariamente per il meglio e per l’umanità tutta, non solo per quelli che hanno visto il miliardino, reale o teorico, depositarsi fragrante sui loro IBAN. Nei discorsi dietro le porte della Copper Box Arena, al centro del Queen Elizabeth Park, il resto dell’umanità esiste solo ed esclusivamente in forma di consumatore. Migliorare il mondo significa realizzare servizi digitali che le persone vogliano usare, un utilizzo che è considerato la più assoluta forma di consenso. Altro non serve, anzi è un impedimento che va superato, tanto meglio se chi lo pone è un vecchio dinosauro analogico: quando capirà da dove è arrivato il meteorite, per lui sarà già troppo tardi. Giornalisti, albergatori e tassisti ne sanno qualcosa. Tutto questo è Disruption.  (CONTINUA  SU STORIE DAL MONDO NUOVO (ADELPHI))