ulivi | Daniele Rielli
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Reportage: L’epidemia di Xylella in Salento (Internazionale)

 

Narra il mito che quando Poseidone e Atena si sfidarono per il dominio sull’Attica, il primo percosse il terreno con il suo tridente e fece sgorgare dell’acqua salata, la dea invece scelse di piantare un ulivo. Quel giorno si decise a furor di popolo non solo che il nome della città destinata a sorgere in quel luogo sarebbe stato Atene – non Poseidonia e nemmeno Poseidonopoli – ma si strinse anche e soprattutto il legame tra gli antichi greci e la pianta dell’ulivo, con le sue molteplici virtù e la sua nodosa maestosità.

Nella Bibbia la fine del diluvio è annunciata dal ritorno della colomba che porta un ramo di ulivo, nell’antica Roma a capodanno i giovani bussavano alle porte dei vicini per offrire in dono rami di, indovinate un po’ di cosa, esatto, di ulivo. Dal canto mio, uno dei miei primi ricordi d’infanzia è la scena in cui mio nonno, con un analogo sebbene indubbiamente più modesto intento simbolico, pone un me di forse tre o quattro anni età, nipote cicciotto frutto di incrocio con le nordiche genti, alla guida di un aratro legato a una mula in mezzo ai suoi ulivi.

La cosa a sorpresa non degenera in incidente agricolo e articolo di cronaca sul Quotidiano di Lecce, ma sopravvivo e ne scaturisce una foto. Da qui, probabilmente, la nitidezza un po’ artefatta del ricordo. Anche se da tempo, per la mia famiglia, gli ulivi hanno smesso di rappresentare un lavoro e sono andati dispersi tra le infinite sorelle di mio padre (riproduzione endemica, ancestrale vizio delle famiglie cattoliche), ne possediamo ancora un centinaio, il che, considerato che in Salento ce ne sono undici milioni, mi rende potenziale ereditiero dello 0,009 per cento del patrimonio olivicolo leccese. Al lordo delle mie, di sorelle.

Oggi queste piante si trovano dentro la cosiddetta zona infetta dal batterio xyllela, la peste degli ulivi arrivata probabilmente su una pianta ornamentale dalla Costa Rica. Ho imparato percorrendo il Salento in lungo e in largo che xylella e quello che ci gira attorno sono questioni molto complesse, ma due punti preliminari vanno chiariti subito: il primo è che per il batterio da quarantena al momento non esiste una cura e non si intravvede nemmeno la possibilità di raggiugerne una a breve termine. Il secondo è che zona infetta non significa che tutti gli alberi siano infetti, ma che la provincia di Lecce è stata definita dalle autorità zona dove non ci si aspetta più di riuscire a eradicare il batterio perché ormai l’infezione è troppo diffusa.

Non è quindi solo con lo spirito del cronista ma anche con quello del nipote che vede minacciate le proprie radici e quello del microproprietario terriero afflitto dalle circostanze avverse, che raggiungo il Salento in auto con mio padre: io per capire cos’è esattamente xylella, quanto è grave la situazione, cosa si può fare, lui per curare i suoi ulivi, per il momento ancora sani, come fa regolarmente da quando tanti anni fa ha lasciato il sud.

Per raggiungerli attraversiamo una Lecce il cui viale dell’Università è stranamente al buio, involontaria anticipazione del clima di lutto che si respira per le strade.

Un lutto in larga parte inespresso, strisciante, nascosto sotto la narrazione dominante sui mass media, classici, online e social, che è quella del complotto. Su facebook riscuotono like, la nuova unità di misura della verità, a migliaia, gli appelli di guaritori, dell’insospettabile agronoma Sabina Guzzanti, del noto scienziato in forza ai Sud Sound System Nandu Popu, dei comitati più disparati che si diffondono sul territorio al diffondersi della malattia, e di fantomatici untori, dai più classici a quelli che esprimono un maggior grado di delirio, a sentire l’internet è tutta colpa della Monsanto, degli alieni, dei baresi, delle catene inglesi di alberghi o, come ha sostenuto un sito cattolico, di un dio che prende una deriva da antico testamento e si appresta a punire il suo popolo per le sue manchevolezze morali, o chissà, viene il sospetto, per aver votato un presidente di regione omossessuale.

Più grave ancora dell’immaginifica caccia all’untore è la negazione della malattia, perché agevola la diffusione dell’epidemia. Una parte importante del Salento oggi è paragonabile a un malato quasi terminale, che invece di percorrere la strettissima e complicata via per combattere la diffusione del morbo, strada resa ancora più angusta da uno stato che non mette sul tavolo i soldi necessari, si rivolge a maghi e sciamani, come da peggiore tradizione italica.
Se lutto c’è, qui siamo ancora largamente nella fase di negazione, un rifiuto figlio di pregiudizi antichi veicolati con i mezzi digitali del nostro tempo. Il risultato è un terreno paludoso in cui le istituzioni preposte a gestire l’emergenza annaspano visibilmente.

L’unica fragile barriera, frutto di lunghe trattative e compromessi, che le istituzioni hanno provato a porre al diffondersi dell’epidemia è stato il piano del commissario Silletti, reso pubblico proprio durante i giorni del mio viaggio in Salento, e che oggi, a poche settimane di distanza, mentre sistemo le ultime righe di questo reportage, è bloccato dal tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio. Il pronunciamento arriva poco dopo una nuova decisione in sede europea, proprio alla vigilia dell’entrata nella seconda, fondamentale, parte delle operazioni fitosanitarie. Per capire cosa significhi tutto questo è necessario tornare a quei giorni in cui il piano era appena stato approvato, e io mi aggiravo tra gli ulivi salentini. Continua a leggere su Internazionale

 

 

 

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L’epidemia senza fine (IL magazine – Sole 24 ore)

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L’Audi A4 di Giovanni Melcarne è un ufficio di guerra in movimento. Le cuffie bianche dell’iPhone perennemente nelle orecchie, risponde ai giornalisti, coordina amici e collaboratori, inizia le frasi in italiano e le chiude in dialetto, esorta, avanza letture dei fatti e dei comportamenti («Tie nu l’hai capito allora ca qhiddru sempre così face»), propone strategie, poi con due dita chiude la chiamata e riprende il discorso che stavamo facendo senza perdere il filo. Fuori dai finestrini c’è il suo campo di battaglia: le distese di ulivi dissecati dal batterio Xylella nel Sud-Ovest del Salento. Quella di Melcarne è una guerra per la sopravvivenza insieme personale e collettiva: salvare gli ulivi, la sua azienda e il consorzio di cui è presidente, quello dell’olio Dop Terra d’Otranto, un prodotto che deve essere fatto al 60 per cento di Cellina di Nardò e Ogliarola, le due varietà d’ulivo tipiche del territorio e che a oggi sono anche quelle più pesantemente colpite dal batterio.

Mi accorgo che il contachilometri dell’auto segna 487mila. Non ho mai visto un’auto con mezzo milione di chilometri. Quando glielo faccio notare Melcarne ride: «Li ho fatti quasi tutti negli ultimi anni, da quando è iniziata l’epidemia». Da tre anni Giovanni cerca di convincere il maggior numero possibile di persone che il problema non è serio, è serissimo, e il Salento senza la monocoltura dell’ulivo non solo non avrà quasi più un settore agricolo, ma si trasformerà nel giro di qualche anno in un deserto di terra rossa pieno di lapidi di legno, ben poco attraente anche per i turisti, altro comparto fondamentale per l’economia della zona.

Xylella è un batterio incurabile che s’insedia nel sistema linfatico delle piante ostruendolo fino a farle seccare. Si diffonde tramite un vettore, la cicalina sputacchina. Gli ulivi, una volta infetti, rimangono asintomatici per una fase che dura all’incirca un anno e mezzo, un periodo in cui sembrano in forma smagliante ma in realtà sono già un deposito di inoculo e fanno quindi da base per l’infezione degli alberi vicini, come una sorta di zombie vegetali. Per questo i protocolli internazionali richiedono l’abbattimento degli alberi infetti e di quelli nelle immediate vicinanze. Strategie di eradicazione che comprendano – oltre al controllo del vettore tramite trattamenti e buone pratiche agricole – gli sradicamenti degli alberi sono la norma quando patogeni pericolosi arrivano su un nuovo territorio. In Australia per un fungo del banano sono state sradicate le piante nel raggio di un chilometro da quelle infette, in Canada per il plum pox virus l’area fu di 500 metri. In Francia, dove recentemente è comparsa un’altra sottospecie di Xylella, si stanno seguendo le procedure internazionali, sradicamenti compresi, e non ci sono notizie di proteste. Nel Salento, al contrario, il concetto apparentemente non molto complicato che per salvare gli 11 milioni di alberi della provincia (senza contare quelli nel resto della Puglia e dell’Italia e del bacino mediterraneo) dall’infezione del batterio senza cura ci sarebbe stato bisogno di abbattere quelli malati non è mai passato presso la popolazione, né presso i politici e nemmeno, almeno per i primi due anni della crisi, presso le associazioni di categoria. Così, nel giro di un paio di anni, il Salento è diventato “Zona infetta”, dove non si prova nemmeno più a eradicare il batterio. La notizia fu accolta da molti con gioia, anche se di fatto equivaleva a una lenta ma inesorabile condanna a morte di tutti gli alberi della provincia. Da quando seguo questa storia ho imparato a conoscere il riso amaro di Melcarne quando racconta aneddoti su quello a cui ha assistito, come una riunione di un’associazione di categoria in cui dal pubblico a un certo punto qualcuno si alzò per dire: «Io tengo un libro di cure giapponese di 1.000 pagine, e vuoi che in 1.000 pagine non c’è manco una cura per Xyella?».

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il cartaceo del n.89 è ancora in edicola fino a metà ottobre:

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