Daniele Rielli » Libri http://www.danielerielli.it Daniele Rielli - IL FUOCO INVISIBILE è in libreria Tue, 05 Sep 2023 11:59:58 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.2.19 IL FUOCO INVISIBILE http://www.danielerielli.it/il-fuoco-invisibile/ http://www.danielerielli.it/il-fuoco-invisibile/#comments Thu, 09 Mar 2023 22:29:35 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4929 Continua a leggere]]>  

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IL FUOCO INVISIBILE

“Con la sua maniera avvincente di raccontare, Rielli ci fa capire come tante cosiddette catastrofi naturali siano in realtà catastrofi umane.”

Emanuele Trevi

“Uno dei più bei romanzi usciti quest’anno”

Antonio Pascale – Il Foglio

“Un racconto a varie prospettive che si legge come un thriller e unisce il brio di certe indagini del New Yorker alla tendenza ri­flessiva intima e problematiz­zante dei reportage di Emma­nuel Carrère.”

Vincenzo Latronico – Domani

“Come in una versione ancora più farse­sca di Don’t look up non è l’a­steroide o il batterio tossico a farci spavento, ma la crisi epistemica che contagia gli esseri umani, la rimozione collettiva del disastro.”

Christian Raimo – TuttoLibri

“Il fuoco invisibile non è un saggio ma un romanzo del reale”

Chiara Severgnini – Corriere della sera

“Il racconto si fa insieme un roman­zo familiare e una sintesi delle evidenze scientifiche allo stato attuale; una lucida analisi storica, economi­ca e sociologica e uno spaccato di cronaca giudiziaria.”

Anna Rita Longo – Le Scienze

“Un formidabile romanzo famigliare – Il fuoco invisibile nella mia libreria lo metto all’ingresso, dove metto i libri di cui parlano tutti “

Alessandro Barbaglia – “Shelf, il posto dei libri”

“Così, per altro verso, Il fuoco invisibile è un libro che parla di come bisognerebbe e non bisognerebbe parlare delle cose, e perciò riguarda anche chi, come me, non ha uno speciale interesse per gli ulivi e le loro malattie, riguarda tutti i cittadini coscienti.”

Claudio Giunta

“”Il Fuoco invisibile” di Daniele Rielli è un libro che ne contiene al­meno quattro. Un raccolto fatto di consapevolezza, ricerca delve­ro, ascolto, riconciliazione con le cose umane.”

NIcola Pedrazzi -Il Foglio

“Una storia che è prima di tutto umana, dunque politica, che ha la cadenza di un giallo e il respiro tragico del dramma”

Annalisa De Simone – Il Riformista

“Il fuoco invisibile” di Daniele Rielli è un libro necessario.

Luca Martinelli – Il Manifesto

“Rielli ci consegna una lettura esemplare e istruttiva su un disastro contemporaneo”

Enzo Mansueto – Corriere del Mezzogiorno

Il 28 marzo è uscito il mio nuovo libro, si chiama “IL FUOCO INVISIBILE – storia umana di un disastro naturale” (Rizzoli) e da oggi si può prenotare in libreria o qui.
Questo libro è tante cose assieme: è il racconto di una grande illusione collettiva, un romanzo famigliare e la narrazione delle vite dei protagonisti, nel bene e nel male, di un’incredibile storia vera.
Se dovessi definirlo in una sola riga direi “il romanzo della strage degli ulivi”, un romanzo però dove ogni cosa è reale e tutti i personaggi esistono davvero. La puntata di PDR podcast in cui parlo del libro assieme a Amedeo Balbi:

#Fuocoinvisibile Tour
28 Marzo Roma Presentazione “Il Fuoco invisibile” e PDR LIVE, modera Amedeo Balbi @Studio 33 h18.30 (evento solo su prenotazione- SOLD OUT)
30 Marzo
Gallipoli @Macarìa modera Andrea Donaera h.16.30
Alessano@Libreria Idrusa h19
31 Marzo Bari@Liberrima h.18 interviene Donato Boscia (CNR)
1 Aprile Lecce @Convitto Palmieri h.18 Interverranno il Sindaco di Lecce Carlo Salvemini, Alessadro Valenti, Francesco Gioffredi. In collaborazione con Libreria Palmieri
11 Aprile Bologna@Sala Borsa h18, modera Guia Soncini In collaborazione con Libreria Coop
12 Aprile Milano @Verso Libri h18.30 modera Paolo Bernardelli
13 Aprile Bolzano, modera Claudio Giunta@Casa della Pesa h 18 In collaborazione con Libreria Ubik Bolzano
17 Aprile-Rovereto, modera Giorgio Vallortigara@Libreria Arcadia  h18
 29 aprile- Fidenza h17 teatro magnani @Terra incognita festival
5 Maggio Lugano @LAC
 12 maggio Ferrara @Libraccio
 18 maggio Milano@Will media -Porter House Milano 5 Via Pompeo Leoni h 18.30, registrazione gratuita qui
19 Maggio Torino@ Salone del libro
h.10.30 sala rosa, padiglione 1,  modera Danilo Zagaria
h.13 firmacopie Stand Rizzoli
20 maggio Mantova @Food&Science Festival h 17.30 Teatro Bibiena
23 e 24 maggio Reading de “Il fuoco invisibile” in collaborazione con il Teatro stabile di Bolzano@ Centro Trevi Bolzano, h 18 prenotazione gratuita qui
24 giugno Salerno @Salerno Letteratura h 19 corte interna convitto Nazioanle
28 giugno Gioia del Colle (BA) h.19.30 Municipio
29 Giugno Specchia(Le) h 20. Piazza del popolo
30 Giugno Trepuzzi (Le) h.19 piazza municipio
5 Luglio Calimera (Le) h.20 Vizi degli dei
6 luglio Il libro possibile – Festival Polignano a Mare (Ba) h.22.30 piazza dell’orologio
7 luglio Presicce (le) giardini pensili palazzo ducale h21
10 Luglio Cutrofiano (Le) Municipio h.20
14 Luglio Ex convento degli Agostinani h 20. Lecce
15 Luglio Castello di Tutino, Tricase h20
27 Luglio RocAntica PDR podcast Live con Rocco Tanica, h21 Roca (LE)
28 Luglio RocAntica PDR podcast Live con Mandrake, h21 Roca (LE)
29 luglio reading musicato de Il fuoco invisibile con Gabriele Rampino, h21 Roca (LE)
30 Luglio Locorotondo@Viva Festival, dialogo con Gianumberto Acinelli h 19 Cala Masciola
20 agosto @Pane e Olio – Montecastello di Vibio (PG)
8 Settembre  @Festival Letteratura Mantova ATTENZIONE: l’evento si terrà con gli altri ospiti ma io non sarò presente per motivi personali.
Altre date sono in via di definizione. Per proposte di presentazione: quitthedoner@mail.com
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ODIO http://www.danielerielli.it/odio/ http://www.danielerielli.it/odio/#comments Wed, 10 Jun 2020 12:28:40 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4465 Continua a leggere]]>  

  IN LIBRERIA

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DICONO DI “ODIO”:

“Daniele Rielli ha scritto un grande romanzo sulle ossessioni della nostra epoca”

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“Un ritratto chirurgico e spietato”corriere-della-sera-logo

“Una cornice letteraria tecnicamente perfetta”

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“Come nei miti classici ci si brucia le ali volando incontro al sole”

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“Un romanzo rutilante, ambizioso, curato nei dettagli”

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 “Cinquecento pagine di profetiche deflagrazioni epocali “

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“Uno sguardo profondo sulla nostra condizione”

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  “Mette i brividi” 

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“La trama e il sistema dei personaggi sono articolati e catturano il lettore in modo incalzante, con colpi di scena,

relazioni sentimentali, cambi di scenario “

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 “Un fremito di rivolta che tutti abbiamo contro noi stessi

e la gigantesca balla che siamo diventati”

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 ” Un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, (…)

e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta».”

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Una piccola selezione delle interviste e degli interventi pubblici su Odio è qui.

 

ODIO è in libreria e su:

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( la voce nel trailer è di Francesco Montanari )

 

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La gallina è tornata. http://www.danielerielli.it/its-back/ http://www.danielerielli.it/its-back/#comments Thu, 17 Jun 2021 08:43:52 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4803 LSG cop web

Gli inizi di DeSa, l’epopea di Salvatore Petrachi, il lato oscuro del Salento.

La nuova edizione cartacea nel Oscar Mondadori è nelle librerie e qui,l’audiolibro letto da FRANCESCO MONTANARI è in esclusiva su AUDIBLE con l’abbonamento (anche con prova gratuita di 30 giorni) o come acquisto singolo.

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“STORIE DAL MONDO NUOVO” IN LIBRERIA http://www.danielerielli.it/daniele-rielli-storie-dal-mondo-nuovo-recensione/ http://www.danielerielli.it/daniele-rielli-storie-dal-mondo-nuovo-recensione/#comments Thu, 27 Oct 2016 14:29:23 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=3806 Continua a leggere]]>

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(2° edizione)

 Dicono di “Storie dal mondo nuovo”

Tanti pezzi diversissimi di mondo tenuti insieme dalla capacità di guardare i fatti e tradurli in narrazione, genere nel quale Rielli eccelle come Carrère o Tom Wolfe .

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Rielli aggiorna al terzo millennio un’idea classica del reportage narrativo, quella novecentesca dei Parise e Vassalli, Ceronetti e Piovene, Manganelli e Tabucchi fino a Tiziano Terzani. Brillantezza linguistica, scelta delle fonti, incisività, ritmo, indipendenza e libertà di pensiero sono le sue armi

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Alla mente torna il geniale Foster Wallace di “Considera l’aragosta

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Rielli possiede un controllo della lingua che lo sottrae ai velleitarismi pirotecnici che sono, invece, uno degli abiti ricorrenti della prosa italiana attuale

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Raramente ho trovato qualcosa di più inusuale e godibile nella descrizione della realtà. Daniele Rielli, ricordate questo  nome

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Daniele Rielli è la prova che in Italia anche il talento conta

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Si ride e si spalancano i neuroni

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Magnifici reportage

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Storie dal mondo nuovo, un rimedio contro la post-verità

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 “STORIE DAL MONDO NUOVO”

(Da Adelphi.it) I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell’elefante – nel cuore della Puglia. L’incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l’inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online. Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere.

alcune interviste a proposito di “Storie dal mondo nuovo”

La Stampa (video) 

La Lingua Batte- Radio Rai Tre

Minima Moralia
Comedy bay

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Dentro l’odio – Intervista http://www.danielerielli.it/dentro-lodio/ http://www.danielerielli.it/dentro-lodio/#comments Sat, 04 Jul 2020 11:58:53 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4498 Continua a leggere]]> 71hfb5l1Q6L

Questa intervista è tratta da un più ampio approfondimento

di Claudia Consoli e Antonella Sbriccoli pubblicato sul sito di Mondadori

Cominciamo dal titolo per inquadrare il tuo monumentale romanzo. Quali sono secondo te le principali forme di odio del nostro tempo?

Nella nostra epoca sono finite le grandi narrazioni, le risposte univoche, le persone hanno la libertà e il peso (le due cose vanno sempre assieme) di cercare il proprio personale senso della vita. Al tempo stesso la società occidentale tende a eliminare dalla sfera della consapevolezza il dramma, la morte, il sacrificio e sembra avere un solo mandato imperativo: essere felici. Un’esortazione che arriva senza il libretto d’istruzioni, per così dire, ed è un vero lavoro dopo il lavoro, fenomeni come il turismo di massa, il ritorno del pensiero magico, l’individualismo spinto fino a una dimensione patologica sono solo alcune delle risposte diverse che vengono date a questo impegnativo – e storicamente nuovo – mandato culturale.

Questo quadro culturale si fonde con la rivoluzione digitale: internet, e in particolar modo i social network, hanno creato un nuovo piano orizzontale della comunicazione, dove chiunque può esprimersi pressoché liberamente e raggiungere potenzialmente grandi pubblici. In sostanza mezzi di comunicazione universali e nessuna gerarchia del discorso, anzi, una progressiva disgregazione del logos a favore di forme più immediate di comunicazione. Il risultato è la tensione che vediamo online, la tribalizzazione della società in bolle e clan che non comunicano fra di loro, si limitano ad odiarsi per partito preso, anzi è proprio l’automatismo nella direzione del loro odio a definire i confini del gruppo. L’esistenza di un pluralismo si dà solo all’interno di un quadro di regole condivise da tutti, regole che oggi sono sotto l’attacco del potere primordiale dei clan, la cellula primitiva della società umana che si ripresenta nella realtà digitale. In parte si tratta anche di un’illusione ottica dovuta alla pervasività dei mezzi di comunicazione digitale – in grado di illuminare tutto e moltiplicare all’infinito ogni segnale – perché complessivamente la nostra è una società dove la violenza fisica diminuisce, aumenta però – quasi esponenzialmente – quella verbale e simbolica, un avvitamento in cui estremisti e guerrieri del politically correct non fanno che rinforzarsi a vicenda. Non è detto che a un certo punto tutta questa energia che è nell’aria non si scarichi a terra.

Odio esplora a fondo alcuni temi chiave della contemporaneità, due fra tutti il modo con cui la tecnologia viene piegata ad ascoltare e misurare la vita intima degli esseri umani, e il commercio sfrenato dei dati, petrolio della rete.  Quanto credi che le persone siano davvero consapevoli di questi fenomeni? E cosa vorresti dire loro con il tuo romanzo?

 “Odio” è la biografia immaginaria, ma verosimile, di un giovane uomo con una storia da errore giudiziario alle spalle che si costruisce un posto di spicco – dopo aver iniziato la sua età adulta in tutt’altra maniera – in uno dei pochissimi settori che offrono grandi opportunità alle persone della sua generazione: il commercio di dati personali. Il libro ha molti strati, quindi il percorso professionale è solo una parte di una vicenda umana molto più complessa e articolata, ma la vera natura del suo lavoro, le sue potenzialità, sono all’inizio oscure anche allo stesso protagonista e questo dà la possibilità ai lettori di scoprirle assieme a lui. Non credo ci sia una consapevolezza diffusa su questi temi, forse dal punto di vista dei dati oggi viviamo in un periodo per certi aspetti simile a quello in cui non esisteva alcuna norma antinquinamento perché nessuno si poneva neppure il problema. In questo caso però non è detto sia possibile tornare indietro o anche solo creare delle norme efficaci: i dispositivi e le piattaforme che sorvegliano ogni istante della nostra vita sono ormai troppo pervasivi, ci servono a organizzare la vita, a lavorare, a essere raggiungibili, a stare con gli altri e ci danno in cambio importanti ricompense neurologiche in grado di generare dipendenza. Rinunciarvi del tutto in questo momento storico significherebbe condannarsi all’eremitismo, anche potendoselo permettere non è detto che sia una scelta auspicabile, in ogni caso è un prezzo enorme da pagare, il che non fa altro che evidenziare il potere smisurato dell’industria digitale.

Nel libro ci racconti che la più antica delle tecnologie umane è il capro espiatorio. Quali sembianze prende nel tuo libro e nella società che descrivi – così attuale e distopica allo stesso tempo?

Nella crisi del logos in occidente di cui parlavo prima, c’è anche la crisi di tutto l’apparato deputato a creare senso all’interno di una società: c’è scarsissima fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica, un forte declino della diffusione di religioni e ideologie unificanti. Tutto questo è accompagnato dall’emergere di una concezione post-modernista della verità secondo la quale ogni gerarchia interna alla società è il frutto esclusivo di una lotta amorale per il potere.

Si può vedere questa tendenza in azione a molti livelli, dalle università anglosassoni dove le persone non sono più considerate come individui dotati di diritti inalienabili e uguali di fronte alla legge ma come membri di questa o quella maggioranza/minoranza, gruppi che li definiscono in toto, oppure in quei movimenti populisti che denunciavano (almeno finché non sono andati loro al potere) la corruzione costitutiva di ogni politica, o, a un livello ancora più immediato, si ritrova in quei genitori che insegnano ai loro bambini che non ci sono regole ma solo la capacità di farsi rispettare, a qualsiasi costo.

Sono solo tre esempi della stessa disgregazione di un senso condiviso, un mutamento filosofico su cui si è innestata, a fare da moltiplicatore, la rivoluzione digitale che ha reso possibile il piano orizzontale del discorso di cui parlavo prima. A questo punto ci troviamo in una situazione che ricorda per alcuni aspetti – non tutti, è una tendenza, non ancora una realtà compiuta – lo stato pre-civile di guerra di tutti contro tutti, una situazione in cui manca un principio unificante.

Nell’antichità l’uomo ha sempre risolto il problema di questa tensione mimetica fra individui diversi (tutti vogliamo le stesse cose che vogliono gli altri, ma le risorse sono limitate) attraverso il principio del capro espiatorio, una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Nel tempo la vittima viene santificata e diventa una divinità, fino a quando non si perde la memoria del sacrificio e rimane solo un nuovo dio, il ricordo della violenza collettiva è cancellato. Questa è la lettura del meccanismo fondativo del capro espiatorio che faceva l’antropologo francese René Girard: De Sanctis la sposa in toto dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale.

Come autore mi interrogavo da molto tempo sulla spietatezza che mostriamo sui social, sulla tendenza che abbiamo più o meno tutti ad accanirci su persone di cui in fondo non sappiamo niente, se non uno scampolo di informazione apparentemente controverso. Quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard (ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle sue tesi nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani), ho capito di essere sulla buona strada.

Orgoglio, angoscia, tensioni irrisolte, ambizione: Marco De Sanctis, il protagonista del tuo romanzo, è talmente complesso da apparire inafferrabile. È colui che nessuno conosce ma che ci conosce tutti. Com’è nato questo personaggio? E quali sono le cose che lui odia di più?

 Marco è un personaggio articolato e soprattutto in divenire, come ogni personaggio romanzesco che si rispetti il suo punto di partenza è molto distante da quello di arrivo e anche dalle posizioni che occupa nelle varie fasi della storia.

La sua caratteristica fondamentale credo sia la voglia di applicare la propria intelligenza al mondo, anche se questo significa per lui mettersi contro tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento e contro il suo gruppo di appartenenza. Non è un personaggio che fugge dal suo tempo, un topos molto praticato nella letteratura italiana contemporanea, bensì una persona che prova a dare una chance alla sua epoca, a entrarci dentro e poi accettare le conseguenze della sua scelta. Il dispiegarsi inesorabile di queste conseguenze è il romanzo.

Per quanto riguarda quello che odia, direi le persone incapaci di mettere in discussione le proprie credenze e, ancora di più, quelle che parlano continuamente di ideali astratti e nobilissimi e poi nella pratica si comportano come dei capi tribù.

Da questo punto di vista De Sanctis è di un’onesta intellettuale che qualcuno potrebbe trovare anche disturbante, perché in genere tutti ammantiamo le nostre vite di storie e storielle che ci aiutano ad edulcorare la dura realtà delle cose, lui invece sembra essere costitutivamente incapace di questo movimento cosmetico. Lui stesso è quindi la prima vittima di questa intransigente lucidità perché la vita di uomo fuori dall’atto di raccontarsi storie è davvero molto dura. La sua teoria del capro espiatorio va letta proprio in questo senso: non è una teoria scientifica sulla realtà, ma una grande narrazione che fornisce a Marco degli appigli operativi, una mappa per un mondo che ne è privo.

Le mappe che la letteratura può ancora ambire a costruire sono esclusivamente mappe biografiche, esempi di esseri umani che qui e ora si confrontano con il loro tempo. La presa di un senso superiore, assoluto, universale, è ormai destituita di plausibilità se non come capacità di sentire il respiro del tempo e interrogarsi sugli obblighi di una biologia forgiata in milioni di anni di evoluzione, proprio là dove tutto sembra futuristico riemergono per questo istinti antichi: sono parte indelebile di noi. L’esergo al romanzo, una frase proprio di Girard, è chiaro a questo riguardo: “L’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura”. La tensione qui non è solo nei confronti del post modernismo relativista in cui si è formato intellettualmente il protagonista del romanzo e che diventa sempre più opprimente in Occidente attraverso il politically correct, ma anche verso il Mondo Nuovo in cui entra: quello della tecnologia, un ambiente che coltiva, in modo neppure tanto nascosto, l’idea di costruire un uomo radicalmente nuovo, un tentativo già provato molte volte nella storia della specie, sempre con esiti disastrosi. Questa volta però è un’operazione con qualche chance in più di riuscire perché ha dalla sua uno strumento potentissimo: la scienza. La biografia di De Sanctis – ovvero Odio – è sospesa precisamente fra queste tensioni, è il tentativo di una mappa personale: individuale, umana perché talvolta contraddittoria, in ultima analisi letteraria.

Anche la politica fa la sua comparsa tra le mille pieghe di questa storia. A volte è colei che manipola, altre viene manipolata. 
Esiste per te nel nostro futuro la speranza di coniugare politica e tecnologia in un modo sano o la tecnologia si è ormai irrimediabilmente trasformata nella principale arma di controllo politico?

La politica, come tutto il resto, si uniforma alle esigenze delle piattaforme sociali, se vuoi arrivare a un pubblico, essere premiato dall’algoritmo, devi conformarti alle loro esigenze che sono quelle di sfruttare gli istinti umani per tenere le persone più tempo possibile sul sito mentre gli viene somministrata della pubblicità. Questo significa semplificare e giocarsi alcune “monete” che in quell’ecosistema informativo funzionano meglio di altre, una di queste è sicuramente l’odio, l’altra è il suo apparente contrario, ovvero il moralismo, che poi è l’odio ricoperto da una presunta superiorità etica. Complessivamente è un sistema di incentivi che in politica finisce per premiare i cialtroni, a destra come sinistra. Oggi le parti politiche si scontrano con toni sempre più accesi, ma chi fornisce la matrice di questa nuova politica sono sempre le piattaforme. O obbedisci o non esisti e quindi non prendi voti. Lo stesso principio si può applicare a molti altri settori professionali, ma per quanto riguarda la politica ci stiamo giocando la democrazia occidentale come la conoscevamo per massimizzare i ricavi pubblicitari delle piattaforme. Questo, per me, è il principale tema politico della nostra epoca, il problema costitutivo, diciamo.

Nel libro Marco De Sanctis fa esattamente questo movimento, dopo aver lavorato per un po’ per la politica si rende conto che il vero potere oggi sta altrove, allarga lo sguardo dal dipinto alla cornice e si rende conto di quanto quest’ultima sia importante nel determinare il contenuto del quadro. Nel momento in cui il medium è diventato universale e si trova nelle tasche di chiunque, l’affermazione di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” ha assunto un grado di assolutezza sconosciuto nell’era delle emittenti radio televisive e della stampa.

Sentimenti e sessualità s’intrecciano lungo i salti temporali del romanzo e diventano a loro volta strumenti per esercitare il potere sugli altri. Esiste un esempio di amore “puro” all’interno di Odio? E, più in generale, può esistere secondo te amore slegato dalla dimensione di controllo? 

 L’amore è il principio unificante per eccellenza, è la forza di attrazione nascosta nella biologia, è il principio generatore posto al cuore della trama profonda della vita, è l’unica cosa a cui è possibile aggrapparsi in tempi di temi di Kaos, in particolar modo in un universo privato di dio l’amore rimane l’unico principio universale. Quanto al controllo, un personaggio ossessionato dal controllo in questo campo era il protagonista di Lascia stare la gallina, ma in Odio controllo e amore non sono temi che si incontrano, c’è questo amore autentico e profondo per una donna di nome Federica e una serie di incontri meramente strumentali, che giustamente De Sanctis definisce “incontri fra egoismi opposti”, che sono esattamente la cifra del sesso nel mondo post modernista, se ogni cosa è potere allora anche il sesso sarà una transizione di mercato in cui si organizza un negozio temporaneo fra quantità di potere compatibili, niente di più. In altri termini il trionfo dell’egoismo. La cosa è vista dalla prospettiva di un uomo, perché De Sanctis è un uomo ma potresti cambiare il suo punto di vista con uno femminile e non cambierebbe nulla. È una condizione trasversale. Non è un caso che solo quando De Sanctis abbandona questo genere di visione dell’esistenza che gli è stata insegnata all’università, s’immerge nella vita pratica e si apre alla possibilità che esistano delle trame immutabili nella storia della specie umana, si dischiude davanti a lui la possibilità di un amore autentico.

Decadente, ricoperta di spazzatura e dominata dai gabbiani: Roma è la quinta scenica del tuo romanzo e ci ricorda le atmosfere da fine impero. Come scrittore che rapporto hai con questa città?

Per una persona nata e cresciuta al Nord, seppur con un genitore del profondo Sud, Roma è, soprattutto all’inizio, una creatura molto sfidante, ci sono tutta una serie di cose che in altri posti sono semplicissime che a Roma diventano di una complicazione notevole, il lavoro di vivere diventa un compito estremamente impegnativo, la quantità di cose che non funzionano è talvolta annichilente. Detto questo se si cambia paradigma culturale, si rallenta il ritmo di vita, si assume un atteggiamento più fatalista è un posto dove si può anche arrivare a vivere bene, la bellezza credo che nessuno la metta in discussione e in fondo sono anche contrario all’idea che tutti debbano uniformarsi all’impersonale paradigma efficentista del capitalismo anglosassone – distruggendo millenni di storia culturale in ogni parte del mondo – e quindi se pure apprezzo molto l’organizzazione e il cooperativismo emiliano devo riconoscere che c’è una forma di resistenza allo Zeitgeist anche nel familismo romano, nell’indolenza come regola di vita. In un certo senso in Occidente Roma è la cosa più simile al residuo di un’epoca precedente, anche questo la rende una specie di organismo vivente inafferrabile che sembra davvero in grado di dare l’illusione dell’eternità. È una città che spesso ti fa arrabbiare e poi però è in grado di darti ricompense del tutto inaspettate, è la perenne eccezione alla regola. Questo è anche il motivo per cui Marco De Sanctis la sceglie come sede per la sua azienda, gli piace l’ironia della cosa ma anche quella specifica tonalità umana che di certo non potrebbe più trovare a Londra.

Sei autore di romanzi, testi teatrali, reportage e sceneggiature: come convivono nella tua esperienza le tante forme della scrittura? E ce n’è una che senti più tua?

Il romanzo, senza dubbio. Le altre forme di scrittura che citi possono essere divertenti e appaganti, servono ad acquisire informazioni non solo sulle cose ma anche sugli uomini e a sviluppare le proprie capacità ma il romanzo è la forma più completa dove la mia ricerca si può esprimere più a fondo e senza mediazioni.

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ODIO è su:

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La tribù online http://www.danielerielli.it/la-tribu-online/ http://www.danielerielli.it/la-tribu-online/#comments Fri, 21 Aug 2020 08:22:44 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4578 Continua a leggere]]> Questo articolo è apparso su Il Foglio il 15.08.2020

“Il Ramo d’oro” di James Frazer contiene, fra le tante, anche le vicende di un’antica tribù africana presso la quale, nel momento stesso in cui veniva nominato, il re fuggiva dal villaggio e doveva venire ricatturato da un gruppo di guerrieri e messo a forza sul trono. La scena ha un che di comico se si considera quanti sforzi sono stati fatti in ogni tempo dagli uomini proprio per salire sui troni, eppure quella fuga dal potere – che Frazer svela poi avere motivazioni piuttosto solide – ha nonostante tutto un che di credibile, di sinistramente sensato: cela l’intuizione di una verità nascosta, come spesso accade con le cose capaci di farci ridere.

Il periodo in cui ho letto per la prima volta questa piccola storia era lo stesso in cui Matteo Renzi aveva da poco perso quel referendum costituzionale che inizialmente doveva essergli era sembrato un goal a porta vuota (proporre agli italiani un taglio del numero dei parlamentari? Quale esito più scontato?) salvo poi diventare un incubo nel momento in cui lui stesso lo aveva trasformato in un test sulla sua persona. Un errore diventato il primo atto di quell’arco declinante che ha mutato il suo personaggio pubblico da uomo della provvidenza a una sorta di villain per antonomasia, quasi compiaciuto del nuovo ruolo marginale e risentito.

Eppure le colpe potrebbero – pensavo – non essere tutte di Renzi. Soprattutto, avendo scritto di lui mi era capitato di osservarlo da distanza ravvicinata e lo avevo visto letteralmente braccato dai suoi sostenitori. Un entusiasmo che sembrava a quel punto il perfetto contraltare dell’odio che era in grado di attirare nella nuova fase crepuscolare della sua carriera. Certo di uomini che promettono molto e finiscono poi schiacciati dal peso delle aspettative disattese è piena la storia della politica – non solo recente – ma mi rimaneva l’impressione che nei cicli sempre più brevi che portano i politici dai vertici all’ ignominia e all’irrilevanza, ci fosse una componente eterna – antica, primordiale – e una che invece era diretta espressione della tecnologia digitale contemporanea.

In poche parole Internet, e in particolare i social network, pur espressione della società della scienza, sono anche degli straordinari amplificatori tribali, ci riportano cioè alle origini della civiltà umana, quando per fondare le nostre comunità sacrificavamo capri espiatori, come ha sostenuto nel suo lavoro l’antropologo francese René Girard. È da questo nucleo di riflessioni che è nato Odio, da questo e dall’aver scoperto che uno dei primi finanziatori privati in Facebook è stato Peter Thiel, allievo proprio di Girard a Stanford e suo seguace convinto, tanto da aver finanziato Imitatio, una fondazione di studi a lui dedicata.

In molte interviste Thiel ha ribadito l’importanza di Girard nella sua formazione e nel libro “Zero to one” ha declinato in chiave aziendalista molte idee del suo maestro. Facebook è un’incarnazione digitale sorprendentemente precisa dei due principi cardine del pensiero di Girard: l’imitazione mimetica e il sacrificio del capro espiatorio. Imitazione mimetica significa – in soldoni – che finiamo sempre per desiderare quello che vogliono le persone che ci circondano, in particolar modo il gruppo dei nostri pari. Come ricostruisce perfettamente Luca Ricolfi ne “La società signorile di massa”, l’élite urbana sogna ad esempio un tipo di lusso studiatamente informale e attento a una costruttissima autenticità – ricerca cioè l’esperienza – la periferia è invece ancora attratta dal possesso materiale e da una ricchezza sfiorata soltanto occasionalmente.

Il punto qui comunque è che non si desidera mai nel vuoto, ma sempre all’interno del proprio contesto sociale, e, soprattutto, che visto che le risorse sono per definizione finite e distribuite in maniera diseguale questo concentrarsi dei desideri sugli stessi obbiettivi genera sempre un certo grado di tensione, di risentimento, di invidia. Nella società primordiale questo tipo di reciprocità negativa sfocia in una sorta di guerra di tutti contro tutti, un piano orizzontale risolto dal sacrificio di un capro espiatorio che pagando per i peccati di tutti permette la pacificazione della società e l’avvento di una gerarchia stabilizzante.

L’attuale ecosistema informativo digitale è orizzontale per definizione dato che tutti, ma proprio tutti, abbiamo in tasca uno smartphone connesso a internet e ricorda molto da vicino proprio lo stato di reciprocità negativa. Al di fuori della rete – nel mondo fisico – permane però intatto l’ordine dettato dalla gerarchia piramidale dall’economia reale. I due piani – quello dell’informazione e quello dell’economia – confliggono perciò in questa sorta di asimmetria fondamentale creando precisamente quella tensione pre-temporalesca che percepiamo ogni giorno, la sensazione cioè che nonostante la società sia ancora in grado di assolvere con una certa efficienza ai suoi compiti fondamentali, una deflagrazione animata da ragioni che appaiono tanto oscure quanto inesorabili ci sembri sempre più imminente.

Cliccare sull’app di Facebook sul mio telefono assomiglia ogni giorno di più all’aprire il portellone di un forno a legna avviato a pieno regime, con la differenza che mentre l’ardere dei tronchi è in grado di generare geometrie imprevedibili, eleganti, ipnotiche, l’odio tribale che brucia su Facebook è quanto di più scontato e meccanico si possa immaginare. Quand’è stata l’ultima volta che avete letto una femminista attaccare l’atteggiamento nei confronti delle donne non del fantomatico maschio bianco occidentale paternalista ma di un estremista islamico? Esatto, mai. Quante volte avete sentito un leghista lamentarsi della minaccia alla sovranità italiana rappresentata non dagli immigrati africani ma del governo cinese? Realisticamente la risposta anche in questo caso è zero. A ognuno secondo la sua bolla, ossessioni, omissioni e contraddizioni incluse, anche se talvolta verrebbe da dire soprattutto omissioni e contraddizioni perché è proprio quando si decide di chiudere gli occhi di fronte a un segnale incoerente che più di tutto si certifica la propria appartenenza al gruppo.

Personalmente abito – abbastanza involontariamente visto che raramente faccio richieste di amicizia, mi limito a rispondere a quelle che ricevo – una bolla digitale composta in larga parte da 30-40enni che fanno, o tentano di fare, professioni creative. Principalmente giornalisti, scrittori, ma non solo. Di questi, una minoranza appare effettivamente sovra-educata mentre la maggioranza sembra in possesso giusto di quella manciata di nozioni che vengono ritenute sufficienti a sentirsi intellettualmente superiori nei confronti del resto della popolazione. Complice anche la transizione dell’industria culturale all’era digitale, la stragrande maggioranza della mia bolla rilascia informazioni che la fanno pensare trasversalmente sottoccupata, il più delle volte malpagata, mediamente rancorosa.

In genere appartiene per meriti famigliari alla piccola-media borghesia e affianca a salari incerti rendite sufficienti giusto a una vita di mero galleggiamento, un’esistenza che con l’avanzare dell’età appare sempre meno adatta; vede insomma davanti a sé lo spettro del declassamento sociale ma l’idea di cambiare settore occupazionale non la sfiora neppure perché il posizionamento di immagine gli appare incommensurabilmente più prezioso di quello economico. Tanto è malleabile dal punto di vista salariale tanto è intransigente dal punto di vista ideologico: è largamente ossessionata dalla correttezza politica, monolitica sui più classici assiomi antirazzisti (ogni forma di regolamentazione dell’immigrazione è, per definizione, xenofobia), si schiera sempre e comunque dalla parte delle minoranze. Nulla nella mia bolla sembra capace di rilassare i nervi scossi quanto un post adirato contro Salvini e, ultimamente, la Meloni.

Il meccanismo è talmente automatico che si potrebbe usare uno di quei generatori automatici di titoli che proprio la mia bolla dedica a nemici storici come il giornale Libero. Intendiamoci, so bene quanto può essere rilassante questo genere di sfogo perché vi ho ceduto spesso a mia volta, è, per l’appunto, parte del fascino del capro espiatorio: esternalizzare il male che abbiamo dentro verso qualcuno che potrebbe aver fatto qualcosa per meritarselo almeno un po’. Crepe nella mia personale bolla digitale sono rappresentate da amici d’infanzia e adolescenza, ex compagni di scuola o di basket, parenti, tifosi della curva dell’hockey club Bolzano che mi seguono per via di un documentario che ho girato sulla squadra. Qui la percentuale di gente che se non lavora non mangia sale in maniera significativa e in questo segmento vanno molto più forte gli immigrati visti come problema, le teorie del complotto sul 5g e i cuccioli di tutte le razze animali addomesticate. Più di ogni altra cosa però si assiste alla pubblicazione di scampoli di vita privata, di momenti familiari, di gite e di ferie. Nessuno qui credo abbia mai sentito parlare di Calenda.

L’ossessione di ribattere a ogni affermazione di un leader politico rimane comunque molto più forte nella parte sinistra della bolla, che, per inciso, sembra contenere parecchie persone passano tutta la vita a combattere guerre online. Le possibilità che un giorno, per uno strano allineamento dei pianeti, qualcuno nell’area sinistra della mia bolla trovi non del tutto deprecabile una singola affermazione della Meloni appare anche in questo caso uguale a zero, il che statisticamente è significativo della scarsa onestà intellettuale impiegata nel giudizio perché un paio di volte al giorno anche un orologio rotto segna l’ora giusta. Non ho dubbi che lo stesso valga in altre bolle a me precluse per un’affermazione qualsiasi della Boldrini.

Quello che sto dicendo è che sui social il dialogo è un’illusione, quello che facciamo è: 1. Segnalare le cose bellissime che riempiono la nostra vita (imitazione mimetica) 2. Prendercela con qualcuno a partito preso per sentirci meglio (sacrificio del capro espiatorio). E lo facciamo a partito preso anche quando nel merito potremmo avere dalla nostra qualche ragione, non è questo però che ci muove: quello che ci mette in azione in questo tipo di piattaforma digitale è ribadire l’appartenenza alla nostra tribù, quella dell’Italia che si sente migliore oppure quella dell’Italia che si sente dimenticata. Il meccanismo è tribale, il dibattito non esiste, è una messa in scena.

L’aspetto grottesco delle echo-chamber politiche è esattamente questo: milioni di persone si affannano a esprimere i loro pareri politici ma non fanno altro che farsi la conta dei like a vicenda mentre predicano ai convertiti. Al di fuori di chi è già d’accordo non c’è infatti nessuno ad ascoltare. Una parte del Paese pensa che l’altra viva in una specie di medioevo e l’altra pensa che la prima abbia perso del tutto il contatto con la realtà e sia intossicata dall’ideologia. Le due parti non si parlano, si disprezzano. Ognuna delle due parti deve sfogare su qualche capro espiatorio la tensione che si genera all’interno di quelle camere stagne dove nessuna voce suona bene quanto la propria.

Non vorrei dare però l’impressione di ritenere che le piattaforme abbiano generato in noi qualcosa che prima non c’era: non è così. La tribalità è sempre esistita, ed è sempre stata una forza fondamentale. Forse il motivo per cui parlo in maniera smaliziata della mia bolla è proprio perché mi ci trovo dentro in larga parte involontariamente, sarebbe per me molto più difficile farlo se mi ci riconoscessi in maniera totale e identitaria, sarebbe come l’acqua per il pesce nella nota storiella di Foster Wallace.

Quello però che i social stanno facendo è prendere una delle caratteristiche dell’essere umano e farne l’unico metro – assoluto – dell’esistenza. Attraverso la continua ottimizzazione degli algoritmi hanno creato un ambiente volto a farci spendere più tempo possibile online, in modo che possa venire somministrata la maggior quantità possibile di pubblicità. L’analisi dei dati ha dimostrato nel tempo che il modo migliore di riuscirci era riportarci, per quanto solo virtualmente, al nostro stato pre-civile. In sostanza, l’Occidente si sta imbarbarendo e polarizzando all’interno di camere di autoreferenzialità dove il logos lascia spazio alla tribalizzazione perché in Silicon Valley possano continuare a fatturare.

È questo l’odio che dagli schermi tracima nelle nostre vite in quantità che sembravamo aver dimenticato, un fenomeno molto più ampio e radicale di questo o quel presunto hate speech, è l’aria che ci circonda, è lo spirito del nostro tempo: lo spirito antico della tribù.

 

ODIO è su:

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L’età del tribalismo (intervista a Minima & Moralia) http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/ http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/#comments Thu, 10 Sep 2020 08:05:08 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4601 Continua a leggere]]> Di Nicola Pedrazzi

Intervista apparsa su Minima & Moralia il 24/07/2020

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odioappena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio. Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

Prima ancora del senso di rivalsa in De Sanctis è centrale la volontà di trovare un posto nel mondo, cercare cioè una forma di felicità all’interno della società della sua epoca, un’eudemonia aristotelica, una teoria della felicità che prevede per un uomo propriamente detto la ricerca di un equilibro della virtù in mezzo agli altri uomini, non in cima a montagna. In questo senso è significativo quanto conti per la sua formazione un personaggio apparentemente minore come Falzone, il funzionario di Invitalia,  in particolar modo quando gli propone questa citazione di Edgardo Bartoli: «Rifiutare la propria epoca è altrettanto impossibile quanto rifiutare la propria nascita e la propria morte». Non è quindi un romanzo all’insegna della fuga della società, l’abbondono della città, il rifiuto in blocco di un consesso sociale percepito come ormai invivibile o irrimediabilmente ingiusto. In parte capisco un sentimento di questo tipo, il nostro è contemporaneamente un tempo storico comodissimo e assediato ma come autore sono più attratto dall’analisi del presente, dalle sue connessioni con il passato eterno dell’essere umano, mi sembra che nella nostra epoca ci sia davvero moltissimo su cui lavorare. De Sanctis quando accetta di uscire dalla sua bolla di speculazione autoreferenziale, dal moto in cerchi concentrici a cui si stanno riducendo le discipline umanistiche e accetta di provare ad applicare la sua intelligenza al mondo, va dalla teoria alla pratica e gli si aprono molte possibilità: è tutto parecchio faticoso ma per certi versi anche inaspettato e stimolante. De Sanctis quindi accetta la sfida del suo tempo – per quanto possa sembrargli impegnativa – e gli esiti, o meglio il suo personale esito, sono il contenuto del romanzo.

La scelta di ripartire da uno dei protagonisti del primo romanzo è funzionale alla credibilità della scalata da vittima a governante della mutazione tecnologica, ma ti ha anche obbligato a un lavoro complesso, di ripresa, collegamento ed evoluzione di un personaggio che avevamo lasciato in Salento a farsi i cannoni in tenda, e che diviene un manager milionario credibile, pur conservando in sé tutti i segni e le passioni della sua giovinezza. Insomma, come escamotage narrativo non è stata una scelta economica. Il che mi fa pensare che tieni molto a Marco De Sanctis, o alla parentela tra i tuoi due romanzi, seppur diversi. È così? Hai mai pensato di poter raccontare la stessa storia senza di lui?

Sì, ci avevo pensato, non a caso ancora adesso il romanzo si può comunque leggere senza aver letto Lascia stare la gallina e non si perde nulla. È del tutto autonomo. All’inizio avevo anche scritto un’ottantina di pagine della stessa storia ma sulla pelle di un altro personaggio, non un borghese in divenire ma un borghese pienamente compiuto, esponente di una solida realtà intergenerazionale. Avevo fatto ricerche in quella direzione e altre avevo in programma di farne. Avevo usato anche una lingua diversa, più semplice, standardizzata e basica, zero mimetismo, un solo livello di lettura oltre ad un’edulcorazione pressoché totale della sessualità, poi ho buttato tutto. Era profondamente inautentico.

Stavo spendendo un’idea forte in una maniera mediata pensando non alla potenza del romanzo ma a un certo standard di settore. Sono ripartito alla ricerca del personaggio e mi sono reso conto che ce lo avevo già in casa, ci sono alcune caratteristiche che doveva avere, per motivi che non posso svelare troppo ma, insomma, Marco De Sanctis era perfetto, a partire dalla sua storia passata di errore giudiziario.

A un certo punto Marco descrive la professione dello scrittore con la frase «osservo, il lavoro dello scrittore è soprattutto osservativo». Si condensa qui una delle tue tensioni preferite, quella tra mentalità scientifica (che il Marco manager di Before ha acquisito con abnegazione) e mentalità narrante (che Marco possiede in quanto scrittore anch’egli, tanto che tutto il romanzo è steso da lui ex post). Cito da una tua intervista di quattro anni fa, proprio qui su M&M: «Molta della cupezza che percepiamo nei nostri tempi deriva proprio da questa inadeguatezza della mente narrante a cogliere la complessità aperta e irriducibile del mondo globale, […] la realtà globale è sempre più complessa e variegata e le narrazioni politiche e mediatiche si dimostrano sempre più incapaci di rapportarsi in maniera efficiente a questa complessità». Diciamo che il De Sanctis di Odio arriva a possedere entrambe le menti, del racconta storie e del freddo analista.

Quella frase sul lavoro osservativo è detta in una scena con una venatura comica – lui e un suo amico si sono scambiati identità per conquistare delle ragazze, quindi c’è anche una certa ironia amicale nella definizione. Detto questo per me era importante nell’impianto del romanzo riconoscere la centralità culturale delle scoperte scientifiche e di conseguenza della tecnologia nel nostro mondo, perché contribuiscono ormai da lungo tempo a definire il modo in cui viviamo, pensiamo, ci aggreghiamo, amiamo, odiamo. Mi sembra impossibile raccontare il presente senza integrare questi aspetti nella storia. Riguardo quella mia vecchia dichiarazione: sono ancora convinto che esista questo iato incolmabile fra storie e realtà però al tempo stesso ora mi è più chiaro come le storie debbano necessariamente avere anche una funzione sintetica, sono mappe, non sono il territorio.

Il problema quindi non è tanto, o non soltanto, nei limiti strutturali delle storie, ma più che altro nella funzione delle storie nell’ecosistema informativo contemporaneo ovvero in come l’architettura di quest’ultimo definisca in maniera quasi invisibile le modalità di sintesi, in sostanza come il medium sia il messaggio. Sentenza di McLuhan che è sempre vera, ma oggi, con l’ubiquità di internet e un accesso pressoché universale al medium ancora più vera di prima. Queste modalità di sintesi sono all’origine dei nostri sentimenti morali, perché Bene e Male poggiano su degli apriori biologici ma si strutturano davvero in noi solo attraverso le storie.  In un certo senso quindi la mia ricerca su questo tema è andata un po’ più a fondo, ho scavato ancora.

Credo che la fascinazione di Marco per la tecnologia derivi anche dalla capacità della scienza di fornire risposte più solide di quelle delle discipline umanistiche in cui si è formato. Su questo punto si sviluppa una delle «riflessioni maggiori» del romanzo, penso in particolare ai pensieri che Marco mette a punto nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna.

Assolutamente. Nella riflessione sull’arte moderna che De Sanctis fa al cospetto del Compianto del Cristo morto di Niccolò dell’Arca c’è proprio la denuncia delle discipline che sembrano conformarsi totalmente all’idea che non esistano più dei canoni né una possibile ermeneutica dell’opera d’arte, ma soltanto un gioco di potere attorno alla sua accettazione o al suo rifiuto. Si tratta di una visione frutto di quel post modernismo che si sta diffondendo come un virus mortale all’interno della cultura Occidentale. L’idea di base di questa corrente culturale è che ogni forma di gerarchia sia per definizione oppressione, e che ogni individuo non sia un essere umano con la sua profondità, la sua variabilità, le sue paure, le sue speranze, la sua dose di problemi, il suo destino tragico, bensì l’impersonale predeterminato membro di un gruppo che lo definisce in toto.

Quindi non Marco ma «maschio bianco» e come tale costitutivamente, moralmente e qualitativamente diverso da, dico per dire, una «donna nera». In altri termini una visione del mondo al tempo stesso razzista e sessista, il contrario di quell’ethos democratico che prevede l’uguaglianza formale di fronte alla legge senza discriminazioni di sorta. Approcci di questo tipo prendono una parte per il tutto. Le gerarchie, oltre ad essere un elemento ineliminabile di ogni organizzazione umana, si reggono sì sul potere ma anche su altri valori, come ad esempio la competenza, l’affidabilità, la responsabilità eccetera e sono la base di ogni ordine sociale, è come si costruiscono e come si declinano che fa la differenza fra una società e un’altra, ma una società umana senza gerarchie è sempre e comunque un ossimoro. Più importante ancora: le ingiustizie non si combattono con altre ingiustizie, né le discriminazioni con discriminazioni “compensative”, bensì ribadendo e implementando con maggiore efficacia l’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, di fronte alla legge, il che si ottiene anche cercando di dare a tutti possibilità di partenza simili, non certo gli stessi risultati finali. È questo il principio da rinforzare, non una nuova forma di discriminazione o di sessismo «alla rovescia», che finisce per alimentare il tribalismo riportandoci a una situazione pre-patto sociale di guerra di tutti contro tutti e che è in realtà l’esatto contrario del progressismo, anche se si appropria impunemente del nome. L’errore di base è nel considerare la vittima come dotata di capacità ultraterrene – pensare cioè che sia sempre e comunque migliore degli altri esseri umani –, un atteggiamento che poi è precisamente il residuo di quella divinizzazione del capro espiatorio di cui parlava Girard.

In realtà quello che serve è una nuova fondazione, non una vendetta, altrimenti il circolo vizioso non si spezzerà mai. Essendo un italiano cresciuto in Alto Adige ho avuto la sfortuna di vedere sin da bambino come qualsiasi discriminazione «positiva» o «compensativa» nel tempo diventi discriminazione e basta, un’esperienza in cui ho parlato nell’ultimo brano del mio libro Storie dal mondo nuovo.

Ricordo il capitolo, fece discutere. Spiegami meglio cosa intendi per «discriminazione positiva».

Se vuoi ti racconto un aneddoto fresco fresco, che ho saputo proprio oggi da un mio amico di infanzia di Bolzano: le poste in Alto Adige sono sottoposte alla proporzionale etnica dei posti di lavoro, solo che pochissime persone di lingua tedesca vogliono fare i postini – di solito evitano gli impieghi pubblici dato che hanno alternative meglio remunerate, in genere nel turismo e nell’agricoltura sovvenzionata – quindi pur di far arrivare le lettere i posti vengono dati agli italiani che però essendo appunto italiani presi a copertura di posti tedeschi non possono essere assunti a tempo indeterminato – come si farebbe se fossero tedeschi – ma solo con contratti di un anno non rinnovabili. Quindi il mio amico che da quasi un anno porta in giro lettere al posto di un tedesco che fa altro ora perderà il lavoro e sarà sostituito da un altro italiano che fra un anno perderà il lavoro a sua volta. Questo è il genere di discriminazione assurda che si crea quando incominci a ragionare per tribù e a mettere le appartenenze ai vari gruppi sopra le persone, l’Alto Adige è una miniera infinita di follie del genere – tutte nella stessa direzione –, ma quando cresci in un luogo con questo grado di razzismo organizzato, scientifico e accettato e poi vedi che tutto quello che la sinistra nazionale riesce a fare, invece che difendere i diritti delle persone indipendentemente dalla lingua che parlano, è usare “Suditirolo” al posto di Alto Adige e sentirsi così alla moda e illuminata mentre sostiene le stesse persone che applicano politiche razziste come queste, incominci a farti delle domande su questo tipo di meccanismi mistificatori, cioè su come si riesca a girare l’assurdo in accettabile e su come alla fine ad ogni tribù interessino solo i misfatti che rientrano nel suo cono ideologico, per cui se è fuori dal paradigma che un italiano subisca del razzismo in Italia quella cosa smette di esistere, di essere percepita, rimane nelle tenebre perché è un segnale non coerente con il resto della narrazione.

Questo significa ad esempio che riguardo all’Alto Adige il fascismo anche se è iniziato 100 anni fa ed è finito da 80 è sempre di grandissima attualità perché è coerente con la narrazione della minoranza vittima, mentre le discriminazioni anti italiani del presente passano sotto silenzio perché non sono coerenti con la narrazione, sono reali ma per essere capite obbligano ad un pensiero complesso e non bianco/nero. E non è solo una questione dell’Alto Adige ovviamente, il nostro ecosistema informativo rafforza sempre di più questo genere di bias di conferma su tutti i temi:, i segnali coerenti vengono amplificati, quelli non coerenti cancellati. Il risultato è una massiccia polarizzazione e un conformismo opprimenti, a destra come a sinistra. Ogni tribù pensa solo a sé stessa e a confermare le sue tesi, manca sempre di più un consenso su principi universali da applicare trasversalmente, i principi razionali tipicamente occidentali su cui fondare una convivenza basata sulla pluralità di opinioni si dissolvono dentro questa follia arcaica che è l’identity politics e il suo ricatto morale: o stai con noi, ciecamente e sempre, o non sei propriamente umano, sei un incivile. Il merito della questione non conta nulla. Questa ossessione per il controllo ideologico del linguaggio appaiato a una sostanziale indifferenza per i destini concreti delle persone è altrettanto al centro del nostro tempo: la facciata ideologica al posto della realtà, in ultima analisi fa sempre parte di quella lotta di potere amorale a cui, secondo il post modernismo, non esiste alternativa.

Per questo il linguaggio diventa un territorio di una guerra molto dura: quando la lingua si ideologizza la sua scarsa capacità di descrivere il mondo è sempre sul punto di essere scoperta, per evitarlo si mobilita la militanza digitale e si chiedono censure a ogni occasione utile.

Molto interessante. Ne approfitto per insistere sul postmodernismo: Marco ne è figlio, e anche per questo reagisce abbracciando le ragioni della scienza. Secondo te in che relazioni sono post-modernismo e tecnologia?

Stiamo parlando di una corrente culturale per la quale l’illuminismo non è un approccio conoscitivo alla realtà che ha dato frutti senza precedenti e può essere preso e replicato, con enormi benefici, da qualsiasi cultura, etnia, o nazionalità umana, ma, piuttosto, una forma di conoscenza oppressiva tipica della cultura bianca patriarcale. Insomma è qualcosa di apertamente oscurantista, non a caso uno dei suoi nemici di elezione è la scienza, perché, tanto per fare un esempio, la luce va sempre alla stessa velocità, che il calcolo lo faccia un bianco, un nero, una donna o un transessuale – per inciso questa sua universalità è una delle sue caratteristiche più belle – e questo per i postmodernisti è inaccettabile perché per loro ogni cosa è il frutto di una violenta sopraffazione sociale, anche la misurazione dei fenomeni naturali.

Poi naturalmente passano le loro giornate a fare tweet o post sui social con i telefoni o i computer, tutte cose che non potrebbero mai esistere senza la cosiddetta «scienza bianca patriarcale».

Però De Sanctis, e in generale tutto il romanzo, mi pare attraversato da una tensione dolorosa al trovare un senso. La critica al post-modernismo, certo, ma il problema appare di portata molto più ampia.

Questo è un punto fondamentale, il post modernismo è la ricetta perfetta per il caos, ma rimane comunque il fatto che fondare qualcosa di solido in campo umanistico è un compito estremamente, estremamente, difficile. Inoltre la nostra è una società che garantisce un’abbondanza di materiale senza precedenti ma fatica a dare senso alla vita delle persone. Dal punto di vista epistemologico non ci sono insomma grossi dubbi su chi fra scienza e umanesimo sia in possesso di una maggiore approssimazione alla verità – la realtà è lì a dimostrarlo –, tuttavia l’uomo è un animale tribale, rituale, attratto dal simbolismo e dal pensiero magico. Tutte cose con cui la scienza non è in grado di dialogare perché dal suo punto di vista non hanno senso, e possiamo anche accettare che la scienza abbia ragione, ma rimane il fatto che ci siamo evoluti in questa direzione e in qualche modo  dobbiamo farci i conti. In più la tecnologia punta soltanto al suo aumento indefinito e lascia inesplorato il regno degli scopi, così come quello della morale, dell’estetica e di molte di quelle cose per cui vale in fondo la pena di vivere.

Qui per me emerge la centralità fondativa delle storie, in particolare la letteratura rimane un metodo di conoscenza della realtà molto efficace proprio perché aiuta a penetrare negli spazi lasciati vuoti  dalla scienza. Attraverso le biografie, l’aneddotica, gli archetipi o la forza della lingua, la letteratura stimola l’intuizione, l’analogia, e finisce per evidenziare delle assonanze potenzialmente illuminanti fra vita reale e vita immaginaria. La letteratura è una pluralità aperta di discorsi tenuta insieme da un’arte capace di parlare anche alla nostra parte non razionale. È questo che la rende preziosissima.

Anche al di fuori della letteratura trovo parecchio rilevante la tensione tra realtà e racconto. La sensazione, terribile, del nostro presente soprattutto italiano è di discutere, dividerci e pensare lontano dalle faglie della realtà e quindi dalle nostre esigenze, financo dai nostri interessi. Trump siede alla Casa Bianca e noi coloriamo statue, piattaforme-super-editore mietono introiti indifferenti ai contenuti di Salvini o Greta Thunberg e noi facciamo l’esegesi politica delle piazze delle Sardine, Zuckerbeg interviene al Parlamento europeo (difficile ipotizzare che si sarebbe mai sentito in dovere di riferire alla nostra Camera o a qualsiasi demos nazionale su Cambridge Analytica) ma nessun media, nessuna maratona Mentana si dedica all’argomento, in quel periodo facevamo i collegamenti con Di Battista dalle fattorie del Sud America (e il Parlamento europeo a cosa serve? Lo sai quanto ci costa? Ha pure due sedi, aboliamole!).

Il fatto di impiegare risorse narrative così sideralmente lontane dai nostri interessi in campo secondo me ha a che vedere con la decadenza morale e funzionale della politica, con la diffusione del complottismo, con la fragilità delle nostre istituzioni democratiche. In questo senso Odio è anche un romanzo-monito, la dimensione politica di questi problemi è al centro della tua attività intellettuale, di ricerca e scrittura. Mi sbaglio?

Se ho capito bene la domanda la tensione a cui ti riferisci è fra l’abbandonarsi alle forme del dibattito incentivate dalle piattaforme tecnologiche o rischiare l’assoluta irrilevanza.

L’hai capita bene, grazie della sintesi!

Il problema è che le forme che le piattaforme incentivano – perché massimizzano il tempo passato online e quindi gli introiti pubblicitari – sono tutt’altro che neutre e ci stanno polarizzando sempre di più fra estremismo e moralismo, allontanandoci dall’empatia e dall’istinto al metterci per un momento nei panni degli altri. Non credo che prima dei social network una sciocchezza intellettuale come quella di giudicare dei personaggi storici secondo i canoni morali del presente sarebbe uscita da qualche circoletto di estremisti. Certo, la storia l’hanno sempre scritta i vincitori ma il meccanismo per cui delle minoranze rumorose riescono ad imporsi con la violenza digitale sulle maggioranze è un fenomeno peculiare del nostro tempo. È preoccupante perché distorce dei sentimenti morali preziosi, come ad esempio l’antirazzismo, piegandoli ad agende di sopraffazione, trascinando il discorso verso il vortice oscuro della gara a chi è più puro, che è sempre l’inizio di tragedie immani.

Il sogno intellettuale nascosto in questi piccoli prevaricatori è quello di raggiungere il potere assoluto e arbitrario del sacerdote pagano (o del funzionario del partito totalitario) e quindi i lumi sono il nemico numero uno. Se infatti non c’è niente di condiviso né nulla di sensato nel presente, allora non c’è limite all’arbitrarietà del futuro potere rivoluzionario. Ma chi vede soltanto potere in ogni cosa non può che essere il primo a essere ossessionato da esso, è una meccanica psicologica che nel romanzo trovi declinata sul tema del Capro espiatorio: Marco passa da piccolo costruttore di capri espiatori fino a capire il funzionamento del processo del meccanismo sacrificale su una scala molto più ampia.  Quando un tema ci attrae tanto è perché ne abbiamo dentro almeno una parte, niente come la letteratura insegna questa lezione.

Tutto questo ci porta anche al giornalismo, professione che hai praticato e pratichi, che è indissolubilmente legata all’esigenza del narrare e verso la quale sei estremamente critico. Marco è una vittima della mancanza di deontologia giornalistica, così come Ottaviano, integerrimo giornalista di Lascia stare la gallina, è vittima del suo zelo professionale, paga con la vita il fatto di non essere un cialtrone totale. Il mondo politico-editoriale essenzialmente romano in cui i protagonisti di Odio si muovono sull’orlo dalla distopia che avanza è imperdonabile… O è un’attribuzione di responsabilità mia personale?

Dunque, prima di tutto questo è un romanzo, non è un saggio, questo non andrebbe dimenticato. Marco, come tu stesso hai detto, è uno che ha visto la sua faccia pubblicata senza alcun tipo di riguardo su tutti i giornali assieme ad un’accusa di omicidio, come per altro accade abitualmente in Italia, è normale che ora  non veda la categoria di buon occhio. Di più: la sua possibilità di compiere una scalata sociale non dipende solo dalle sue abilità ma anche dal risarcimento che ottiene per la pubblicazione indebita di alcune sue immagini, quindi il tema per lui è fondante, rientra nel ciclo torto-risentimento-vendetta, il suo odio per la stampa non è un vezzo dell’autore, è un pilastro centrale della sua vicenda umana. Allo stesso modo Ottaviano, in Lascia stare la gallina, è un’idealista in maniera quasi comica, non lo confonderei con un mancato premio Pulitzer, è un ragazzo nella più tipica delle fasi iniziali della professione, in cui si pensa inevitabilmente che ogni storia che capiti fra le proprie mani sia la più importante e quella in grado di cambiare il mondo.

È simpatico e si finisce per volergli bene, sul fatto che non sia un po’ un cialtrone a sua volta non ci metterei però la mano sul fuoco. Detto questo la mia idea personale sul giornalismo in Italia è che sia fatto in larga maggioranza da organizzazioni che hanno raggiunto un elevato grado di senescenza interna e che per una serie di motivi, burocratici, legislativi e di opportunità politica, non riescano a rinnovarsi. Ripensare il prodotto per sopravvivere in un’epoca che comunque è oggettivamente molto, molto difficile si è dimostrato un obiettivo al di là delle loro capacità organizzative. Spesso si dice che in Italia il problema sia l’inesistenza di editori puri e può darsi che sia così, può darsi pure che contino, in negativo, quei tratti retorici della nostra cultura nazionale, perché quando hai una diffusa antipatia nei confronti dei fatti e uno spiccato senso di appartenenza ad una fazione è difficile fare buon giornalismo, il problema principale però credo rimanga proprio quello della senescenza delle organizzazioni. Le aziende sono un po’ come le persone, prima o poi perdono spinta interna, si adagiano, indugiano per abitudine e pigrizia in processi ormai superati dal tempo finché non muoiono.

Questo è quello che credo stia succedendo: i giornali si assottigliano, perdono valore e diventano oggetto di shopping a basso prezzo per chi vuole avere un presidio politico; quanto possa durare una situazione del genere non saprei dirtelo. Rispetto al libro questo è un tema rilevante soprattutto per contrasto, nel senso che il mio interesse è rivolto ormai molto più verso le organizzazioni in fase ascendente, ancora in grado di liberare la creatività, di premiare il merito, di ripensare i processi, un interesse che sta alla base della costruzione del personaggio di Marco De Sanctis.

Proseguo un attimo sul filo della responsabilità, perché la seconda riflessione filosofica del romanzo è sul libero arbitrio. Il tema innerva tutta la vicenda, ma è affrontato esplicitamente durante il dialogo che Marco ha con l’amico Emanuele (lo studioso che gli farà conoscere il pensiero girardiano) mentre lo accompagna in macchina a riconquistare Sara, la seconda delle sue donne. Marco stima la ragazza, la compatisce per l’essersi innamorata di Emanuele, e tira in ballo la sua libertà di scelta: non vuole stare più con te, lasciala in pace.

Funzionale alla giustificazione di un misfatto privato, ma la risposta di Emanuele, che è filosofo, è programmatica: il libro arbitrio è una «sciocchezza da americani», un «modello astratto non più compatibile con lo stato attuale delle nostre conoscenze». Insomma per Emanuele nulla è morale, non esistono nemmeno i presupposti per l’immoralità: «La coscienza di una decisione è una finzione narrativa che interviene dopo averla presa». Infastidito da questo determinismo (che gli algoritmi che lo stanno rendendo ricco parimenti gli suggeriscono), Marco testa il suo libero arbitrio fingendo di sterzare con l’auto verso il guardrail. Il siparietto si chiude con Emanuele che lo prega di «non prendere la filosofia troppo sul serio». Cazzeggiando, ma siamo al centro del romanzo…

Siamo sicuramente in uno dei punti in cui emerge lo scontro fra l’ambizione dell’umanista – ma anche dell’uomo tout court – di essere centro e metro ultimo del mondo e l’avanzare della scienza e della tecnologie con le loro sentenze, talvolta sgradevoli per il nostro ego. È vero che – contrariamente alla credenza popolare – la scienza non è latrice di verità immutabili ma di certo è in grado di fornirci delle approssimazioni migliori rispetto a quelle che potremmo ottenere solo grazie alla contemplazione o al dibattito. L’onere della prova fa tutta la differenza del mondo, e la fa a favore della scienza.

Ora, quello che la scienza ci sta dicendo con sempre maggiore insistenza è che molte delle categorie del dibattito umanistico potrebbero in fondo non essere per nulla a fuoco, lo stesso concetto di libero arbitrio potrebbe essere poco più che una finizione narrativa. Capisci bene che si tratta di un’affermazione pesantissima. C’è molto del libro in questo corto circuito, nell’importanza cioè che le storie ricoprono nella nostra vita e nella costruzione delle nostre società, e nel fatto che un giorno l’hard problem della coscienza potrebbe risolversi con la rivelazione definitiva che non esiste nulla come una “scelta”, se non altro non nei termini in cui l’abbiamo sempre pensata. Certo non credo che a quel punto ci rimarrebbero altre reali possibilità se non comportarci come se non avessimo mai ricevuto una notizia del genere e continuare a raccontarci storie dove siamo al centro del mondo e prendiamo tutte le decisioni più importanti da un generatore di senso nascosto da qualche parte dentro di noi.

Ho un po’ di angoscia, io e la mia coscienza ci allontaniamo volentieri da questa discussione… E ti portiamo invece sulla relazione tra esperienza e letteratura. Roma – Bologna – Berlino è l’asse spaziale di Odio. Si tratta di tre città che conosci molto bene, ci hai vissuto e si vede. L’aver toccato con mano spesso conferisce alle tue descrizioni una vitalità «animale», penso a certe descrizioni culinarie, che mi hanno fatto venire davvero fame, o alla straordinaria sequenza al Carrefour, su cui torniamo.

Non ti chiedo quanto conti la realtà vissuta nell’elaborazione della fiction (cose del tipo: esiste davvero quel supermercato?), perché do per scontato che pesi, ti chiedo piuttosto quali misure prendi per tenere a bada l’esperienza personale e far vincere la letteratura. Le diversità sono innumerevoli, ma se dovessi dire un punto su cui Odio è tecnicamente «superiore», diciamo più maturo della Gallina, indicherei la lingua; i personaggi narranti della Gallina, per quanto plurimi, erano tutti più vicini alla lingua dell’autore, che in Odio ha fatto un passo indietro, la tentazione di cercarti in Marco passa molto presto anche a chi ti conosce. Insomma, tra i due romanzi hai costruito continuità ma io vedo anche rottura. Come si lavora sulla propria scrittura?

Il supermercato esiste, nei primi tempi che ho passato a Roma, ormai quasi quattro anni fa, vivevo in una casa che mi aveva prestato un amico lì vicino, alla volte scoprivo alle undici di sera di avere il frigo vuoto e andavo in scooter a comprare qualcosa, ricordo quel posto con grandissimo affetto, è stato il primo luogo di Roma a cui mi sono affezionato, aveva veramente qualcosa di mistico, una pace assoluta, tutta quell’abbondanza silenziosa, la sensazione di essere eccezionalmente vicini al centro simbolico del nostro mondo. Pensa al grado di cooperazione fra esseri umani che è necessario per portare una tagliata di manzo argentina in un supermercato di Roma ad un prezzo tutto sommato contenuto, è una cosa quasi inspiegabile, la dice veramente lunga su chi siamo come specie.

Per me questi sono fenomeni molto più interessanti del sentire qualcuno urlare al megafono come andrebbe governato il mondo secondo lui. Per quanto riguarda la lingua considera una cosa: questo è un romanzo di ambientazione borghese, mentre Lascia stare la gallina è un romanzo di ambientazione popolare, la differenza – considerato il tentativo di mimetismo della mia lingua – è dirimente. Poi sono d’accordo che non sia solo questo, anche a me pare più matura questa lingua, ma mi sembra per certi versi inevitabile, nel tempo scrivendo e leggendo si acquisisce una sensibilità diversa, quando ti trovi di fronte alla pagina diventa diverso quello che cerchi prima di tutto a livello istintivo e poi anche a livello, più mediato, di revisione. Il discorso sulla lingua si articola su moltissimi piani, quello del ritmo – per me importantissimo – quello del mimetismo, particolarmente sfidante in questo caso perché i contesti nel romanzo sono fra di loro molto diversi, così come molti sono i temi che emergono dietro la vite dei protagonisti. Infine non metterei Berlino sullo stesso piano di Roma e Bologna nel romanzo, queste ultime due sono molto più importanti, i due episodi a Berlino sono poco più di una cartina tornasole sul cambiamento di DeSa, un cambiamento che si svolge però tutto in Italia.

La mia scena preferita è proprio quella al Carrefour di via delle Fornaci, ora che so che esiste diverrà meta di pellegrinaggio. Marco ci invita Federica e la incanta con la competenza delle migliori guide turistiche: al posto degli affreschi di Giotto abbiamo gli scaffali di roba, ma poco conta, quello del capitalismo è comunque un tempio. Il fatto che un amore vero nasca lì dentro è simbolico della nostra condizione, vorrei un commento da te su questo. In generale, credo che si possa dire di te quello che ti ho sentito affermare di Michel Houellebecq in una recente intervista: sei, forse insospettabilmente, uno scrittore romantico. Non solo perché costruisci molto bene le scene di sesso, ma perché nei tuoi amori, anche nei più disastrosi, si coglie un che di salvifico, una pepita di senso ancestrale che suona e dice la sua, nonostante la sconfortante ostilità dei contesti e la miseria delle condizioni.

L’amore è il principio unificante per eccellenza, è il motore dell’evoluzione, è in ultima analisi il perché siamo ancora qui, nonostante tutta questa incessante fatica che è la vita. Diventa importante specialmente in un periodo come questo di tensione simbolica di tutti contro tutti, dove le grandi narrazioni sono finite e ognuno sembra lottare soltanto per il proprio gruppo di appartenenza e appare davvero difficile trovare un territorio ideale comune, anche minimo, su cui poi lasciare che si sviluppino delle differenze rispettose dell’altro. In fondo l’amore è un principio che non ha bisogno di essere socialmente fondato, accade, e non si capisce mai bene perché, è un gioco che milioni di anni di evoluzione giocano alla nostra coscienza, la sua imprevedibilità è anche la sua bellezza. D’altro canto come sarebbe stato possibile scrivere un romanzo che s’intitola Odio se dentro non ci fosse stata anche la polarità dell’amore? Non sarebbe stata una storia degna di questo nome.

Il romanzo non ha un’unica trama, per il lettore le fonti di piacere sono molteplici: certo c’è la distopia, il dopodomani cui tutto tende, ma c’è anche tanta vitalità, tanto oggi in cui ci si specchia con momentanea leggerezza. Il trio Marco-Emanuele-Mauro incarna molto bene la dinamica dei compagni di giochi che entrano nel mondo adulto, e che, piano piano, si sentono in dovere di «giustificare» la propria vita agli occhi degli amici. Coinquilini al tempo dell’Alma Mater, Marco è l’imprenditore fattosi da sé, Emanuele lo studioso forte di patrimoni secolari, Mauro lo scrittore di meritato successo, una parabola resa possibile anche dagli agi della sua ricca compagna di nobile lignaggio romano, dedita al sociale e carica di moralismi. «Fossero stati tutti condizionabili senza sapere di esserlo come Cristina, il valore di Before sarebbe stato ruffly 2,5 miliardi», sentenzia, fuori campo, Marco.

Ecco, queste e altre dinamiche relazionali – anche secondarie, si veda il papà di Sara, a mio giudizio il personaggio numero uno seppur sostanzialmente irrilevante nell’economica del racconto – sono costruite con una precisione d’intarsio e un’attenzione all’umano tale che quando lo sfondo politico inghiotte tutto, l’effetto è quello dei bassorilievi dei galeoni in fondo al nero del mare: aveva senso descrivermeli così bene, se tanto sono finiti lì? La mia impressione è che tu non sacrifichi mai i dettagli per due motivi: perché sono belli e meritano in sé, ma anche perché, soprattutto in Odio, è in quei dettagli che fai risuonare il senso complessivo dell’affresco. Con il senno del poi, tutto in Odio è in un certo senso premonitore…

Mi fa piacere che tu l’abbia notato perché in effetti è esattamente così, ci sono voluti quattro anni per scriverlo proprio per questo motivo, non c’è niente nel libro che non risponda al progetto complessivo. E questo è anche il motivo per cui il libro non è un saggio, ma un romanzo e per me era importantissimo che lo fosse nel senso più profondo e letterario del termine. Prendi il breve documento filosofico che il protagonista scrive verso la fine del libro, ogni volta che lo leggo da solo mi sembra buono, ma in fondo insufficiente. Se invece lo leggo assieme al resto del romanzo assume tutta un’altra valenza, ha un respiro diverso, più trasversale, più profondo, lo sento più condivisibile perché so che è l’espressione di una biografia ricostruita con dovizia di particolari. Lo sento nel suo essere il frutto di un essere umano intero, non solo della sua parte razionale: è in questo che il romanzo diventa imbattibile e ci aiuta a navigare anche nell’era della scienza. È una biografia, è una mappa individuale, non ha pretese di assolutezza, non è il manifesto di un partito, è la testimonianza di un uomo come me e te che attraversa il nostro stesso tempo.

Chiudendo il libro – che fatica non spoilerare –, mi è venuta in mente una celebre frase di De André, pronunciata sul palco l’ultimo tour, poco prima di morire: «Non ho mai avuto paura dell’uomo solo, ma dell’uomo organizzato». Anche qui, un’antica dicotomia che tu frequenti da tempo. Il libro si chiude con la netta distinzione tra chi è fuori, consapevole e dunque solo, e chi è dentro, aderente a una nuova organizzazione umana. Non saprei quale delle due condizioni è più spaventosa. Da osservatore della realtà e degli uomini, sei portato a diffidare di più della natura umana o delle organizzazioni sociali? Che idea ti sei fatto della relazione tra le due?

Senti non sono così convinto che DeSa abbia poi capito davvero molto più degli altri. Attraverso le sue scelte di vita anche coraggiose ha visto più cose della maggior parte delle persone e ha scoperto il potere disvelante della tecnologia rispetto alla natura umana, è vero, ma non ho alcun dubbio che nonostante la peculiarità della sua vita, DeSa sia ben lungi dall’aver capito tutto, il costrutto è romanzesco, il pretesto è biografico, Odio non è una teoria del tutto, è qualcosa in cui specchiarsi e vedere se non esce fuori qualcosa d’inaspettato rispetto alla conoscenza dell’animale che tutti siamo. Quanto alla differenza fra natura umana e organizzazioni sociali, esisterebbero le seconde se non fossero nella potenzialità della natura umana? Non credo possano esistere organizzazioni “innaturali”, penso però che ne possano esistere alcune preferibili ad altre.

Un’ultima cosa un po’ personale. Quand’è che chi scrive si rende conto di avere dentro la benzina per un romanzo? Quando lo si capisce, di esserlo, uno scrittore? Anche a livello di senso di appartenenza non me la vedo facile. Ogni giorno si iscrivono alla categoria geni incompresi che, con storie come la tua in mente, si ossessionano con il loro blog autoreferenziale; oppure personaggi diversamente mediatici, che approdano quasi d’obbligo al feticcio libro. Mi viene in mente Zalone ospite da Fazio, che presenta a favore di camera la copertina del volume che non ha ancora scritto, ma che già sa che gli chiederanno e che venderà migliaia di copie. Il titolo provvisorio è, per l’appunto, «Libro». C’è chi giustifica il raccontare e lo scrivere come urgenza «per sé stessi», come terapia, chi la sistema come un gesto di altruismo verso gli altri, chi accetta che non abbia un senso preciso ma che è così e basta. Qualunque sia il tuo movente (e da quello che hai capito, qual è?), come si tiene la barra dritta nel narcisismo che investe chiunque a un certo punto ipotizzi di avere qualcosa da dire e, di conseguenza, un pubblico? Anche quando legittimati dai riconoscimenti, non è abbastanza insopportabile sapersi scrittori? Cosa ti ha spinto, negli anni, a crederlo e a volerlo essere? Che vita è?

Qui ci vorrebbe una di quelle risposte roboanti da festival culturale però ora che hai citato quel genio assoluto di Zalone diventa un po’ difficile farlo senza mettersi a ridere. In realtà non ho una risposta precisa, da quando mi ricordo sono sempre stato interessato a cercare di capire il funzionamento del mondo che mi circonda, ho sempre letto molto, ho quasi sempre cercato di mettermi in situazioni complicate o strane con l’idea che male che andava ne avrei comunque ricavato qualcosa in termini di conoscenza. La tentazione conseguente di costruire una mappa scritta è venuta quasi subito. La mappa è imperfetta, è in divenire, per certi versi del tutto aneddotica e in ultima analisi personale, ma è anche la cosa che so fare meglio e anche una delle pochissime in grado di darmi una parvenza di senso. Quanto al narcisismo, stai parlando di uno che ha scritto il primo libro sotto pseudonimo, però devo dire che nel tempo sono arrivato a considerare un certo grado di narcisismo come qualcosa di sano, anche questa lotta censoria e assoluta contro ogni forma, anche perfettamente sotto controllo, di ego è abbastanza patologica, nasconde altri tipi di egocentrismi ben più contorti e disfunzionali, e si inserisce nei meccanismi dell’odio raccontati nel libro. Poi certo, l’ambiente editoriale è particolarmente ricco di casi di narcisismo patologico, da questo punto di vista è talmente un cliché che può capitare di avere a che fare con delle persone con cui è difficile rapportarsi per il semplice fatto che partono dall’assunzione di base che ogni autore sia di fatto uno psicopatico. Un’assunzione che gli  deve derivare dall’avere alle spalle parecchi precedenti, per carità,  ma resta il fatto che in casi come questi è virtualmente impossibile convincerli del contrario, ad esempio se gli dici «Ti ringrazio ma non c’è bisogno» queste persone pensano «Questo fa finta di fare la persona modesta, che megalomane», è un loop di presunzione di colpevolezza da cui con tutta la buona volontà non è possibile uscire, assomiglia un po’ al dialogo di Bill Hicks con i pubblicitari. Dopo un po’ capisci che in casi come questi l’unica cosa da fare è lasciar perdere e assecondarli. Poi però torni dai tuoi amici e per sbaglio gli rispondi come risponderesti a quel tipo di persona e i tuoi amici ti rispondono «non tirartela eh». Insomma alla fine capisci come si sono creati, tutti quegli psicopatici.

 

 

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