(articolo pubblicato il 15/01/2021 su Domani, illustrazione Unsplash)
Quando, qualche anno fa, incominciai a lavorare al mio romanzo Odio, immaginai un uomo poco più trentenne che arrivava a Roma per lavorare dietro le quinte della politica, salvo scoprire in fretta che il vero potere ormai non abita più dentro il parlamento o nei ministeri, quanto piuttosto nelle grandi aziende digitali, uno stato di cose che ora, dopo i fatti americani degli ultimi giorni, è diventato evidente a tutti.
Che si ritenga o meno giusto nel merito censurare un presidente in carica, le limitazioni alla libertà di espressione di un politico eletto come a quella di un privato cittadino non dovrebbero mai essere prese in maniera unilaterale da aziende private che operano in condizioni di sostanziale monopolio. Aziende che per di più non sono sottoposte alle regole e alle responsabilità tipiche degli editori, benché di fatto lo siano, in particolar modo nel momento in cui prendono decisioni come queste.
La creazione di limiti di accesso ai mezzi di comunicazione non può essere delegata alle policy aziendali oscure e autoreferenziali di queste mega aziende culturali, in particolare perché, per l’appunto, ognuna di esse opera sempre in regime di sostanziale monopolio all’interno della propria tipologia di servizio in virtù dell’effetto rete (ci può essere un solo servizio dominante tipo Facebook su un territorio perché la maggior parte degli utenti vogliono stare dove ci sono anche tutti gli altri), oltre che per gli enormi investimenti necessari a creare e tenere in piedi strutture di questo tipo.
Il sistema è del tipo winner takes all, chi vince prende tutto, per questo trattare la questione della concorrenza delle piattaforme come se si trattasse di giornali del ventesimo secolo è sbagliato praticamente sotto tutti i punti di vista. Tuttavia se anche emergesse un network parallelo “di destra” a garantire un maggiore pluralismo – un esito non del tutto impossibile ma tecnicamente difficile vista l’impressionante omogeneità ideologica della Silicon Valley – questo non farebbe che aumentare la tribalizzazione, già devastante, delle nostre società, chiudendo ancora di più il mondo dentro delle bolle che non comunicano fra loro, bolle alimentate dall’emotività e dall’identificazione di gruppo, luoghi dove del logos occidentale rimarrebbe solo un pallido ricordo, una sorta di vestigia di una pratica ormai perduta. (continua a leggere su Domani)
Il fallimento di questa classe dirigente improvvisata è l’ultimo atto di una politica italiana che ha ipotecato il futuro per comprare consenso e tentare così di nascondere la gravità della situazione.
Ormai è evidente: il grande assente dal dibattito italiano sul Coronavirus è la questione del debito pubblico. Eppure, se nell’affrontare l’epidemia non ci possiamo permettere il relativo agio di Paesi come la Germania e andiamo invece con il cappello in mano a chiedere soldi ad altri Stati, è proprio per via del nostro debito.
Se all’inizio di questa emergenza l’Italia aveva meno posti in terapia intensiva per abitante rispetto ad altri paesi europei è perché per anni i soldi destinati a questo genere di investimento e alla crescita del Paese sono stati invece spesi (senza alcuna misura) per comprare consenso politico, alimentare clientele, tenere in vita artificialmente aziende decotte e finanziare una macchina burocratica che sembra passare la maggior parte del tempo a impedire agli italiani di lavorare.
Se ora si offrono prestiti – che non si capisce come dovrebbero essere ripagati nel contesto di crisi economica radicale che ci aspetta – o si discute di piccoli aiuti a fondo perduto – in percentuali del tutto insufficienti – per ristoratori, operatori del turismo e aziende colpite da Covid, è perché per decenni abbiamo buttato via i soldi che sarebbero serviti ad affrontare situazioni di emergenza come questa e a finanziare quegli investimenti magari in perdita nell’immediato ma utili alla salute del sistema sul lungo periodo, voci di spesa come sanità, istruzione, ricerca. Complice anche un contesto mediatico che – nel bisogno di vendere minuti di pubblicità al prezzo più alto – premia chi la spara più grossa, chi è più retorico, roboante e savonarolesco, la classe politica italiana degli ultimi decenni è stata contraddistinta da una caratteristica trasversale: una pressoché totale mancanza di responsabilità intergenerazionale.
Una quantità sostenibile di debito può avere senso se utilizzata per finanziare la crescita di un Paese, ma negli anni la strategia di base della politica italiana è stata quella di comprare consenso nel presente scaricando i costi sul futuro, in genere ammantando questa ruberia con grandi dichiarazioni di principi. In pratica quello che è stato fatto è un viaggio nel tempo per prelevare dai conti in banca di figli, nipoti e pronipoti, che tanto non essendo ancora nati non possono protestare. Che in Italia il tasso di natalità sia basso tutto sommato è una delle poche cose perfettamente sensate. Questo proprio mentre siamo oggetto delle mire espansionistiche di una dittatura – quella cinese – che per definizione ragiona sul lungo periodo. Il piccolo cabotaggio dell’attuale classe politica italiana rispetto all’enormità delle minacce che ci circondano è sotto gli occhi di tutti e ci rende terra di conquista delle più agevoli.
Il cambiamento che auspicavo nel mio pezzo all’inizio dell’emergenza era esattamente questo: un bagno di realtà sulle condizioni della società italiana e sulla tendenza suicida a farla guidare da persone del tutto inadatte, nel senso proprio di scarsamente competenti e inadeguate all’elevatissima complessità del compito che le aspetta.
Quello che invece abbiamo avuto è stata la grande caccia al Paese cattivo del nord che non vuole cacciare i soldi – domanda, noi cosa faremmo al posto loro? – e l’attacco in stile dittatura morbida contro chiunque sollevasse dubbi sul governo e sul suo operato. Si va dal tipico “E allora Salvini?”, riedizione contemporanea dell’ormai tragicamente famoso “E allora il Pd?” ai grotteschi appelli su Il Manifesto (Il Manifesto!) contro ogni dissenso con la cabina di regia.
Insomma, pluralismo e democrazia rimangono sempre concetti largamente alieni a quella parte dell’opinione pubblica che pare incapace di ragionare se non in termini di clan, famiglia, fazione. Per queste menti naturalmente tribali il merito delle questioni appare un noumeno irraggiungibile, una variabile in fondo del tutto irrilevante quando invece è l’unica cosa che conta ed è quello su cui si dovrebbe concentrare la dialettica delle parti politiche. L’Italia, al contrario, pare bloccata in un eterno o con me o contro di me.
Una delle differenze con la Germania ad esempio è che quando i comitati scientifici parlano alla Merkel, la Merkel, con tutti i suoi difetti, capisce quello che le stanno dicendo e dà tutta l’impressione di ragionare in maniera analitica. La preoccupazione numero uno di Conte sin dall’inizio è invece parsa essere quella di tranquillizzare, mediare, lanciare il sasso e poi nascondere la mano, vedere come si sviluppavano le cose, e in ogni caso comunque mai trattare gli italiani come degli adulti. Insomma nessuna linea chiara se non quella di agire come un vero uomo dei palazzi romani del potere[1], contesto nel quale infatti Conte si è formato: la relazione prima della competenza, la mediazione prima della decisione, la convenienza politica prima della realtà dei fatti, la cosmesi prima della presa di coscienza della gravità della situazione.
Con un atteggiamento del genere non si va lontano in generale, durante una crisi poi i risultati possono essere disastrosi, come infatti è regolarmente accaduto.
La reazione della politica di fronte all’inasprirsi della crisi è stata un’ulteriore sforzo nell’alterare la realtà fino a farci assistere a scene francamente surreali e da italietta come i momenti in cui Conte – durante le sue dirette Facebook – ha spiegato al popolo quanto l’azione del nostro paese contro il Covid fosse tenuta in massima considerazione nel resto del mondo. Come no, con un numero di morti che in quel momento era il secondo più alto del pianeta (ora è il terzo) tutti guardavano al modello Italia.
La vera cifra della considerazione di cui gode nel mondo questa classe dirigente italiana è nel ritardo con cui tutti gli altri Paesi europei hanno adottato misure di contenimento: nessuno ci ha preso sul serio. Ma facciamo finta per un momento che le cose stiano diversamente, che davvero, cioè, l’azione di governo italiana fosse ben considerata dagli altri Paesi, quanta sudditanza psicologica, quanta dichiarazione d’inferiorità contiene un’affermazione del genere? Chi fa i compiti a casa, chi si comporta seriamente, chi non ruba il futuro alle proprie generazioni, chi non reagisce istericamente alle domande dei giornalisti non ha bisogno di sentirsi dire dagli altri che sta andando bene, lo sa già.
Al contrario chi è nella confusione più totale, perché non ha categorie solide per interpretare la complessità e l’estrema variabilità del mondo agisce alla cieca e poi, di fronte al proprio fallimento, evoca apprezzamenti altrui. Insomma prova a nascondersi dietro i pezzi di carta, altro atteggiamento disfunzionale tipico dei sistemi burocratici in aperta decadenza. Si compie cioè il passaggio di responsabilità personale al documento che certifica che là fuori sarà pure tutto in fiamme, ma le carte sono in regola. Lo stesso riflesso pavloviano che porta Conte a dire che all’estero ci apprezzano moltissimo dopo che a due mesi e mezzo dall’inizio dell’emergenza ancora non si fanno tamponi a sufficienza, non è in uso alcuna tecnologia di tracciamento e non sono ancora disponibili in numero sufficiente mascherine e altre protezioni.
Il problema per il governo è che poi la realtà attorno a noi permane, tutti ne facciamo parte e la subiamo. Quello che succede, ad esempio, è che ristoratori e commercianti debbano riaprire – nonostante condizioni sanitarie precarie e (probabilmente) pochissimi clienti ad attenderli – perché lo Stato non ha i fondi per aiutarli e nello stesso momento si vogliono buttare ALTRI 3 MILIARDI per Alitalia, gli ennesimi. Il trucco comunicativo insomma è di corto respiro perché la realtà è fin troppo severa ed è sotto gli occhi di tutti. Un’Italia il cui lo sforzo maggiore della classe dirigente sembra quello di negare l’evidenza non ha futuro.
L’aspetto più terribile di questa situazione è che non sembra esserci nell’orizzonte politico alcun soggetto in grado di intestarsi a buon diritto i concetti di responsabilità e competenza e aggregare attorno a essi un consenso sufficiente a governare il Paese.
Qui il discorso è ampio, la risposta semplicistica è dire che in fondo agli italiani va bene così. Può darsi, anche se non credo. M’interrogo invece se sarebbe possibile nell’attuale contesto mediatico l’emersione di un politico che predichi responsabilità sui conti, visione di lungo periodo, affronti i problemi in maniera analitica e prima ancora di legiferare s’interessi dei meccanismi che regolano la quotidianità dei cittadini invece che limitarsi a fare sparate demagogiche e poi raffazzonare dei provvedimenti che aumentano solo l’entropia legislativa italiana. Mi sembra molto difficile. In maniere diverse i media generalisti da un lato e i social network dall’altro sono entrambi canali comunicativi che premiano l’audience e l’engagement – è così che fatturano pubblicità – e quindi campano di sensazionalismo, di retorica a buon mercato o di quotidiano sacrificio di un capro espiatorio.
(Esempio di chiarezza legislativa italiana)
Per inciso il sacrificio del capro è l’esatto contrario della responsabilità, perché serve ad allontanare i responsabili dall’azione della giustizia, sacrificando al loro posto qualcuno che non c’entra nulla. È una sorta di meccanismo omeostatico con cui si bilanciano le società primordiali e che si cerca – sempre con un certo affanno, ma l’uomo è tutt’altro che perfetto – di superare attraverso lo stato di diritto e il governo delle leggi. La riemersione del meccanismo capro e con esso dell’impossibilità di individuare le vere responsabilità, segnala sempre l’avanzato stato di decadenza di una società, il ritorno, cioè, alle sue forme primitive, alla guerra di tutti contro tutti.
Le esigenze sensazionalistiche dei media contemporanei – afflitti da una radicale crisi del modello di business – sono tuttavia una condizione strutturale comune a tutte le democrazie occidentali avanzate, che pur in affanno non sembrano, almeno nella maggior parte dei casi, trovarsi in situazioni drammatiche quanto quella italiana.
È quindi nella specifica declinazione nazionale – la maniera cioè con cui questa situazione tecnologica-industriale dell’informazione impatta su una specifica cultura – che va ricercata una parte delle cause della nostra situazione.
In sostanza l’unione fra una cultura retorica e idealistica come quella italiana mal si sposa con dei mezzi di comunicazione che hanno un’uguale ritrosia nei confronti dei fatti, dei dati, dei numeri e, potremmo spingerci dire, del semplice argomentare logico.
( Questo articolo è apparso su Domani il 18/09/2020, illustrazione di Doriano Strologo)
Nel momento in cui scrivo la campagna di boicottaggio #CancelNetflix ha raccolto 640mila firme in tutto il mondo e causato una grossa perdita in borsa al titolo del gigante americano. Soprattutto, #CancelNetflix si è dimostrata una campagna estremamente simbolica di alcuni meccanismi chiave del nostro tempo. Questo, in breve, il riassunto di quello che è accaduto: Netflix ha messo online Mignonnes, un film francese premiato al Sundance film festival – un’opera che tratta dell’ipersessualizzazione delle bambine – e lo ha annunciato attraverso una locandina in grado di attirare l’attenzione di quel genere di persona che sta tutto il giorno su Twitter a controllare che non ci sia per sbaglio al mondo qualcosa che non risponda esattamente al suo volere per poi denunciarlo seduta stante. Nel caso specifico l’immagine ritraeva le attrici preadolescenti di Mignonnes nella scena più disturbante del film, il climax drammatico del lungometraggio, il momento cioè in cui, vestite come le ballerine dei video musicali, si esibiscono in pose ricalcate in maniera grottesca e inquietante su quelle delle loro omologhe adulte. Il risultato è stato un boicottaggio globale contro il film, accusato immediatamente di istigare alla pedofilia. (continua a leggere su Domani)
Lettera aperta pubblicata sul Corriere della sera (15.10.2019)
Gentile presidente Kompatscher,
quest’estate ho accettato un suo invito a partecipare alla pubblicazione per i 100 anni del trattato che nel 1919 sanciva l’annessione dell’Alto Adige all’Italia. L’ho fatto perché ho preso sul serio una lettera in cui Lei mi parlava di una “nostra” terra, condivisa cioè fra cittadini di lingua italiana e tedesca. Ora apprendo che il suo consiglio provinciale ha cancellato per legge le parole “Alto Adige” e “altoatesini” da alcuni documenti ufficiali. In seguito alle polemiche a livello nazionale Lei ha cercato di minimizzare l’accaduto, ma il fatto rimane di una gravità assoluta. Come sa meglio di me, Alto Adige è un toponimo di origine napoleonica, non fascista. È un gioco di prestigio retorico quello di evocare continuamente un regime dittatoriale finito quasi 80 anni fa per giustificare qualsiasi prevaricazione fatta nel presente nei confronti dei diritti degli italiani dell’Alto Adige, della loro lingua e della loro cultura. Sappiamo che il suo partito si oppone da sempre alla possibilità di creare delle scuole miste fra italiani e tedeschi, così come è strenuo difensore della discriminazione nell’accesso ai posti di lavoro pubblici in Alto Adige.
Questo attacco alla lingua italiana rappresenta però un livello successivo. Alto Adige è il nome con cui 120mila persone di lingua italiana, persone che non hanno nella stragrande maggioranza dei casi nulla a che fare con il fascismo, chiamano il posto dove sono nate e cresciute, la loro casa. Come scrittore mi è chiara l’importanza della lingua nella vita degli esseri umani. È con la lingua che ricordiamo il passato, descriviamo il presente, progettiamo il futuro, definiamo cioè la nostra biografia. È attraverso la lingua che proviamo a spiegarci il mondo, ad organizzare la società. È nella lingua che cerchiamo senso, sfumature, poesia. È con la lingua che parliamo di amore e educhiamo i nostri figli. La lingua è al tempo stesso un organismo vivente e il primo posto in cui abitiamo, lo spazio mentale che ci tramandiamo di generazione in generazione. La lingua è preziosa e fondativa. Va trattata con rispetto. Nella nostra lingua, l’italiano, la parola che indica la terra dove siamo nati non è Südtirol (che va benissimo in tedesco e infatti nessuno vuole levarvela), non è Sud Tirolo (una parola che non esiste), non è Provincia di Bolzano (una formula senz’anima). È Alto Adige.
È davvero necessario spiegarle queste cose? Forse che la parola “fascismo”, a forza di usarla con la strumentale leggerezza con cui l’adoperate abitualmente, abbia perso per voi il suo significato? Diversamente non credo che dovrebbe essere difficile riconoscere la matrice fascista di un atto di sopraffazione come questo. Proprio Lei, esponente di un popolo che in passato ha subito questo genere di prepotenze e di censure linguistiche, ora ripete gli stessi errori. Emmanuel Carrère ha scritto “Una regola, atroce ma raramente smentita, vuole che carnefici e vittime finiscano per scambiarsi i ruoli”. E atroce lo è, in effetti. Se nemmeno il regime di privilegio di cui gode l’Alto Adige rispetto alle altre regioni di Italia (o rispetto ai Länder austriaci) riesce a bloccare queste spinte al conflitto etnico, allora la mente rischia di affacciarsi in luoghi davvero oscuri. Fra convivenza e cancellazione etnica c’è tutta la differenza del mondo, per cui, signor Presidente, rimetta la parola Alto Adige dove stava, se ci verrà voglia di cambiarla, mi creda, glielo faremo sapere.
( pubblicato su 7 – Corriere della sera, il 23 febbraio 2018)
La prima cosa che ti dicono all’ingresso visitatori di Palazzo Chigi è «spegnere il cellulare»; la prima cosa che fanno tutti appena superato il metal detector è fotografare il cortile con il cellulare. Di stranieri, nel gruppo di visitatori di cui faccio parte, non ne vedo, il che è un po’ un peccato perché sarebbe stata per loro una rapida lezione di italianità. Durante la mia visita turistica a Palazzo Chigi di cose da immortalare e rivendere a stati canaglia, Isis e Spectre varie non ne incontrerò comunque nessuna. Il punto delle foto compulsive – nel gruppo c’è pure un signore con una reflex che appena rimane solo spara rapide sequenze furtive, come se nessuno si accorgesse dell’accrocchio di due chili che ha a tracolla – è un altro. Il cortile, come molti altri ambienti che s’incontrano durante la visita, è uno dei luoghi “della televisione”, di quelli cioè che si vedono durante il telegiornale e sono quindi oggetto del meccanismo di riconoscimento, sollecitato dalla guida, da parte del pubblico di visitatori. Il tour di Palazzo Chigi si può fare due sabati al mese da ottobre a marzo, previa prenotazione, con largo anticipo per i grandi gruppi, anche due giorni prima se siete da soli (l’unico da solo peraltro sono io).
CHE TIPO DI PERSONA, VI STARETE CHIEDENDO a questo punto, mentre è in gita a Roma, città dal patrimonio artistico che tende a infinito, decide di dedicare un’ora alla visita di Palazzo Chigi? Nel caso del mio gruppo l’età è alta (diciamo dai cinquanta in su), gli accenti quasi tutti del nord con una netta predominanza di veneti – un po’ a sorpresa un po’ no, perché spesso ci attira proprio ciò che odiamo, temiamo e mette aliquote sul reddito che raggiungono il 43%. Da alcune giacche spuntano quotidiani di destra e c’è un manipolo, molto ridotto, di specializzati in “palazzi del potere” che si sono già sparati Camera, Senato e Quirinale. Fra di loro anche uno dei pochi giovani dell’intera compagine, un ragazzo segaligno che sembra sapere tutto e si guarda attorno come si trovasse in un luna park. Il tempo, confido, lo renderà ironico e disilluso quanto gli altri. O presidente del Consiglio. Per il resto si tratta appunto di vedere luoghi che in forma catodica abbiamo già visto migliaia di volte, entrare sul set del nostro House of Cards. La guida è una giovane donna che si trascina dietro il figlioletto alle prese con «un attacco di mammite, è la prima volta che succede una cosa del genere», garantisce mentre chiede scusa.
IL PUBBLICO SI DIVIDE FRA indifferenti e una quota di nonne che si producono in «uuuhhh» «ihhhhh» e «che carino», antico riflesso pavloviano che si scatena in presenza di pupo italico indisciplinato, cosa che senza dubbio nel tempo ci renderà competitivi nei confronti dei cinesi. Nonostante abbia una creatura appesa a una gamba, la guida snocciola storie, nomi e dati come una che sa il fatto suo: volendo si può classificare questa capacità come lezione di italianità n.2. Si parte dagli Aldobrandini che costruiscono il palazzo abbattendo un gruppo di edifici preesistenti, si passa per i Chigi che lo rialzano in una di quelle gare di altezza degli immobili che contraddistinguono le civiltà che ancora non hanno scollinato verso la fase decadente, e di passaggio in passaggio si arriva all’attuale destinazione d’uso, piuttosto recente, visto che è datata 1961. Bisogna anche tenere presente, e il manipolo di feticisti dei “palazzi del potere” annuisce compatto quando la nostra madre-guida lo ricorda, che di tutte le sedi istituzionali Chigi è la più spoglia – i precedenti proprietari si sono portati via quasi tutto prima di venderlo allo Stato – e forse è pure la più brutta, ma questo, specifico, lo aggiungo io.
(caricatura di Giovanni Angeli)
LA DELUSIONE MAGGIORE COMUNQUE per noi turisti del già visto è la sala stampa, quella dove vengono riprese le conferenze dopo le riunioni del Consiglio dei ministri. È piccolissima e il soffitto fa un effetto cartongesso non proprio di grande classe. La cosa non sfugge a nessuno, tanto che partono le tesi su quale complessa teoria d’illusioni ottiche debba essere stata necessaria per dotare di autorevolezza i filmati che da questo luogo giungono nelle nostre case: «Sono gli specchi» avanza qualcuno. «Anche le luci», aggiunge la guida che comunque chiosa «è la sala più tecnologica del palazzo» il che, concretamente, significa che ci sono quattro telecamere. Va infatti tenuto presente che Chigi, almeno nella parte che ci mostrano, non è proprio la sede di Google, la cosa più avanzata tecnologicamente essendo le berline di rappresentanza parcheggiate nel cortile. Sulle postazioni dei ministri nella sala del Consiglio ad esempio fanno capolino vecchi computer portatili color violetta e i microfoni hanno tutta l’aria di aver vissuto le notti magiche di Italia 90. Se poi siete di quelli che credono al simbolismo sappiate che la “sala delle scienze” qui è un’anticamera con un tavolo e una stampante. Particolari di un potere in netta dissonanza con il suo tempo che però naturalmente non turbano nessuno, al contrario vibriamo tutti all’unisono in virtù del medesimo, ovvio, retropensiero quando ci viene mostrato lo stemma dei Chigi «molto simile al logo di una moderna istituzione bancaria». Si tratta in effetti di una piccola piramide di colli che ha giusto una fila in più rispetto allo stemma del Monte dei Paschi di Siena, città che ha dato i natali alla famiglia dei Chigi, il che spiega la somiglianza.
E COSÌ MENTRE C’È CHI PENSA che in fondo era destino, ci illustrano il solenne cerimoniale di fronte allo scalone d’onore, per l’occasione percorso a pancia in giù dal bambino di cui sopra. A questo punto il bambino viene rimosso da un uomo e tutti chi chiediamo «ma sarà un parente?» e quando la guida continua per nulla turbata dal ratto del puero concludiamo che sì, sarà senza dubbio un parente. Non riusciamo a vedere il salottino giallo perché dentro c’è il presidente del Consiglio (chi è che è adesso? Gentiloni, ah già), ma in compenso vediamo diverse altre sale, compresa appunto quella del Consiglio dei ministri dove a parte la tavola rotonda e le sedie ci sono tre cose tre: una copia della Costituzione, un busto di De Gasperi («guarda che naso tipicamente romano» Alcide De Gasperi, luogo di nascita: Pieve Tesino, Trento), e una bacheca dove per qualche motivo non è custodito, chessò, l’elenco dei Nobel italiani, ma le medaglie delle Olimpiadi che si sono svolte nel nostro Paese prima dell’avvento di Virginia Raggi.
La vera hit comunque si rivela la sala dove sono appese alle pareti le foto di tutti i presidenti del Consiglio dall’Unità ad oggi. «Guarda che giovane il Berlusca, guarda lì il Mortadella». Sotto la foto sono indicati tutti i singoli mandati di ogni presidente, e partono quindi immediatamente le classifiche complessive per vedere chi ha le statistiche migliori da quando è stato fondato il campionato. C’è anche qualcuno a cui piace vincere facile e, scrutando le date, osserva ammirato «Mussolini più di vent’anni eh». La cosa più interessante sono però forse le espressioni, le posture e l’abbigliamento degli ultimi politici che hanno ricoperto l’incarico: c’è Romano Prodi impegnato ad esprimere bonarietà tranquilla e rassicurante (ovvero a impersonare Romano Prodi), Silvio Berlusconi giovanissimo, Enrico Letta (ah già, Letta!) senza giacca, Massimo D’Alema che prova lo sguardo verso l’infinito in una parodia di Che Guevara, Mario Monti con un sorrisino rassegnato che sembra intuire cosa diranno di lui un giorno i visitatori e infine c’è un Matteo Renzi che guarda in alto a sinistra come se ad una finestra del palazzo alle spalle del fotografo stesse succedendo qualcosa di parecchio grave e inaspettato, la bocca socchiusa nel broncio di chi è un po’ sorpreso e assieme deluso da quello che vede. «Nel caso ve lo steste chiedendo, le foto vengono scelte dai diretti interessati». In effetti, me lo stavo giusto chiedendo.