Articoli | Daniele Rielli | Daniele Rielli – IL FUOCO INVISIBILE è in libreria | Pagina 6
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CATWALK – Un racconto di viaggio

Al ricevimento nella Casa del presidente, Scott Stossel, il direttore dell’Atlantic, dedica la parte centrale del suo breve discorso al programma di giornalismo investigativo di cui faccio parte. Dice che alcuni colleghi sono arrivati lì, al centro per artisti di Banff, nell’omonimo parco naturale nello dell’Alberta, Canada, da molto lontano. Durante questo passaggio dirige per un momento lo sguardo, seguito subito da altre persone, verso di me, unico rappresentante della vecchia Europa nella stanza e soprattutto faro di autentica e sincera ineleganza in mezzo a una platea di abbienti canadesi in giacca e cravatta. Le Adidas che indosso sono aggravate dall’italianità del mio inglese, un accento che innalza tragicamente le aspettative in fatto di abbigliamento, privandomi senza appello di quel salvacondotto che una diversità culturale meno specifica mi avrebbe offerto. Non sarebbe stato male, ad esempio, provenire da una tribù di pescatori polinesiani usi a vestirsi di soli tatuaggi. Invece niente, decenni e decenni d’italiani in grisaglia mi spogliano dello scudo di ogni correttezza politica, il che in Canada è una condizione non facile da raggiungere, ma non mettete limite al talento.

Il peccato originale è stato quello di prendere troppo sul serio il paragrafo sul dress code contenuto all’interno delle dettagliatissime informazioni pre-arrivo inviate via mail dal centro, una sorta di manuale di comportamento per ogni esigenza/complicazione/interazione possibile durante la permanenza in Canada. Un malloppo in grado di coprire ogni aspetto dello scibile umano, dai corsi di yoga che si tengono nella grande palestra con annessa piscina, ai numeri della consulenza psicologica qualora uno si ritrovasse ad avere bisogno di un analista durante la permanenza. E questo zibaldone della vita artistica assistita canadese è stato molto chiaro, quasi perentorio: “Abbigliamento informale”, diceva, e così, fiducioso nella proverbiale affidabilità anglosassone e timoroso di fare la figura del primitivo rimasto bloccato nell’austero canone estetico del Novecento, sono partito da Fiumicino con ai piedi delle Stan Smith e in valigia solo degli scarponi da montagna. Sono anche l’unico del mio programma al ricevimento, perché via mail mi è stato chiesto se per caso non mi andava di incontrare i Green, l’anziana coppia di mecenati che nello specifico aveva finanziato la mia permanenza quassù. Così mi sono ritrovato a deflettere gli sguardi dalle scarpe e dal maglione da Fantozzi in gita in val Gardena e a pensare a una tattica di smarcamento rapido e indolore per arrivare a Calgary entro le 20 di questa sera, pena fallimento dell’operazione che ho pazientemente organizzato da ben prima di atterrare in terra canadese.

Alle 18.05, grazie a un indegno passo del granchio indifferente, sono fuori dalla Casa del presidente, diretto verso Virgil – il mio braccio destro recentemente nominato all’interno de “l’operazione” – che ha già tirato fuori il truck dal parcheggio. Virgil è un canadese cinquantenne abbastanza idealtipico, alto più di un metro e novanta, piazzato sia di spalle che di pancia, barba lunga e occhialini tondi, assomiglia vagamente ad un orso hippie. Nato in Canada, è cresciuto in Texas con dieci fra fratelli e sorelle, il che lo ha reso espertissimo di giochi di società e di carte e pronto a organizzare feste di stampo famigliare-scoutistico a ogni occasione. Dopo 48 ore, per esempio, si era già procurato le chiavi della cantina della palazzina dove alloggiavamo e andava in giro a dire che dentro c’era un tavolo enorme, veramente enorme, un tavolo talmente grande che bisognava assolutamente trovare un gioco da fare tutti assieme su quella sterminata superficie di legno. Virgil non è solo un giornalista d’inchiesta; in Canada, dove è tornato a vivere, è noto anche come whistleblower per una vicenda riguardante la gestione dei fondi della Croce Rossa canadese durante la ricostruzione dopo lo tsunami in Indonesia, un’operazione a cui aveva partecipato direttamente come delegato della ong. Si tratta di un affare enorme, diversi miliardi di dollari, soldi che, ha sostenuto in un documentario realizzato dopo essere fuoriuscito dall’organizzazione, sono in larga parte scomparsi sui conti di contractor privi di scrupoli che per realizzare i lavori avrebbero poi usato della forza lavoro ridotta in schiavitù.

Tutti i protagonisti del programma di giornalismo investigativo lì a Banff erano autori di storie forti, ognuno aveva documentato la sua dose d’ingiustizie, di assurdità, d’inefficienze, qualcuno aveva coperto anche morti sospette, brutalità poliziesche, soprattutto. Dal canto mio, la storia che avevo portato era quella della surreale malagestione dell’epidemia di Xylella, una vicenda che non conteneva violenze ma aveva gli originali toni – almeno a queste latitudini – della commedia dell’assurdo delle vicende italiane. Rispetto a quelli di tutti gli altri, la storia di Virgil era oggettivamente di un’altra magnitudo, eppure non c’era stato un singolo momento in cui l’avesse fatto pesare.

Tre o quattro giorni prima del ricevimento alla Casa del presidente l’avevo intercettato sulle scale e trascinato al bar, determinato a insegnargli il concetto di aperitivo. Sembra una cosa semplice, ma in realtà non è un’idea facilissima da comunicare a un canadese che, come la maggior parte dei canadesi, è abituato a cenare alle 5. 30 di pomeriggio. Per lo scambio culturale avevo scelto il MacLab, il bar più riuscito del centro, un locale con un arredamento minimale che ammicca agli anni Sessanta e un’ampia vetrata sulla valle da cui era facile vedere passeggiare a poca distanza dei cerbiatti o degli alci – per inciso gli alci sono enormi, la mia misurazione personale di un grosso esemplare è circa 2/3 di un elefante del Bioparco di Roma. Mentre mi prodigavo in spiegazioni tecniche (no, non puoi mangiare adesso, è proprio questo il punto. Sì, lo so che sono le 6) una delle almeno tre televisioni che trasmettevano sport a qualsiasi ora del giorno come in un qualsiasi altro bar del Nordamerica, aveva mandato in onda una gigantesca rissa fra i giocatori di due squadre di baseball. Il mio commento era stato: “Finalmente il baseball è interessante” e Virgil aveva riso. Si può dire che in quel momento abbiamo incominciato a diventare amici.

In generale Virgil parla con un’affascinante combinazione di estrema tranquillità ed estremo acume, un tono di voce spia di un carattere che sembra mantenere a distanza di sicurezza sia la cupa disperazione sia l’entusiasmo automatico. Sarebbero tratti interessanti di per sé ma diventano notevoli in una persona che alla fine dei conti è pur sempre un idealista, uno che per approfondire le ricerche in Indonesia sulla vicenda della ong, non disponendo di ricchezze famigliari, si è ipotecato la casa. Come cittadino del paese della retorica non ero del tutto preparato a incontrare una persona di quel tipo. Ogni volta che sento storie estreme di giornalisti freelance in Italia mi torna in mente un’intervista a una giovane auto-inviatasi a sue spese in zone di guerra che diceva sostanzialmente che sì, era una vitaccia, spendeva più di quello che guadagnava, vedeva morire un sacco di gente, ma almeno era sempre lei quella con le storie migliori da raccontare alle cene con gli amici. Insomma, Virgil era per me un animale nuovo. L’operazione, dicevamo. (Continua a leggere su Il Foglio)

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La censura cinese all’estero

Articolo pubblicato su Il Foglio (12.10.19)

 

Che la Cina non garantisca libertà di espressione ai propri cittadini è cosa nota, che metta in atto delle politiche per ridurre quella dei Paesi occidentali è invece un tema meno esplorato. L’ultimo caso risale a pochi giorni fa, quando Daryl Morey, G.M. degli Houston Rockets, squadra di basket della NBA, ha twittato la scritta “Lotta per la libertà. Supporta Hong Kong” a sostegno delle proteste che perdurano nel protettorato cinese da quando, questa estate, è iniziata la discussione parlamentare di una legge che permetterebbe l’estradizione dei cittadini nella madre patria.

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Nonostante il social network sia censurato sul territorio cinese dal 2009, il tweet non ha lasciato indifferenti le autorità di Pechino che hanno subito alzato la voce pretendendo scuse e annunciando conseguenze pesantissime. Gli Houston Rockets sono stati in passato la squadra di Yao Ming, l’unico giocatore cinese di un certo livello che la storia del basket ricordi, per questo motivo sono ancora oggi il team più seguito in Cina: in occasioni speciali indossano persino canottiere con il lettering in caratteri cinesi. Dalla prospettiva degli americani il mercato cinese è il secondo al mondo, con oltre 600 milioni di persone che la scorsa stagione hanno visto una partita della NBA e pagato un terzo degli abbonamenti globali al servizio di streaming. Dopo il tweet, il partito comunista cinese ha fatto muscolare sfoggio del controllo assoluto che possiede sull’intera società: la lega di basket nazionale ha rescisso i suoi accordi di collaborazione con la NBA, servizi di streaming e canali televisivi hanno sospeso la trasmissione delle partite e il merchandising è sparito da diversi e-shop, così come sono stati annullati alcuni eventi già programmati in Cina.

In un primo momento le reazioni americane sono state singolarmente prone al dettato cinese, il proprietario dei Rockets Tilman Fertitta si è affrettato a dissociare la franchigia dal tweet, lo stesso Morey ha chiesto scusa, specificando che non voleva offendere nessuno. La NBA ha rilasciato un comunicato in puro slang corporate che è riuscito nel non agilissimo compito di scontentare tutti: i cinesi, i difensori della libertà di opinione e anche quelli della logica. Da un lato infatti la lega riconosceva che il tweet “aveva offeso molto gli amici e i fan cinesi” e questo era “spiacevole” subito dopo però accennava non a una difesa del semplice e lineare “freedom of speech”, quanto piuttosto al sostegno “all’educazione delle persone e alla condivisione dei punti di vista sulle cose per loro rilevanti”. La Cina d’altrocanto si dimostra da tempo ipersensibile, nel 2018 è ha vietato la distribuzione di un film che vedeva Winnie the Pooh fra i protagonisti perché su internet erano apparsi dei meme che evidenziavano la somiglianza fra l’orsetto bonaccione e il presidentissimo Xi Jinping. Quando il comedian John Oliver ha parlato nel suo show di questa simpatica similitudine e dell’abitudine, meno gradevole, dei cinesi a violare sistematicamente i diritti umani, il servizio di streaming di HBO dove va in onda il programma è stato immediatamente bloccato in tutta la Cina.

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(John Oliver e Winnie the Pooh)

Winnie the Pooh compare anche nella risposta data al regime dai creatori di South Park, show oggetto di un’altra censura cinese per via del suo ultimo episodio “Band in China”. “Come la NBA, diamo il benvenuto ai censori cinesi nelle nostre case e nei nostri cuori. Anche noi amiamo i soldi più della libertà e della democrazia. Xi non assomiglia per niente a Winnie the Pooh. (…) Lunga vita al Grande Partito Comunista cinese! Possa il raccolto di sorgo essere copioso questo autunno. Va bene così Cina?”

 

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(il tweet degli autori di South Park)

Nell’episodio – disponibile in streaming gratuito sul sito dello show – i personaggi di South Park formano una band musicale e vengono costretti da un discografico statunitense ad edulcorare i loro testi, rimuovendo i riferimenti all’omosessualità, al Dalai Lama e a qualsiasi altro argomento che possa impedire la diffusione della loro opera sul mercato cinese. Durante la puntata appare anche – rinchiuso in un carcere cinese – uno spaesato Winnie the Pooh, sempre lui. La storia di prodotti culturali statunitensi modificati per ottemperare ai desiderata del partito comunista non è certo un’invenzione di South Park, già nel lontano 2006 era stata tagliata da “Mission Impossibile III” una scena in cui apparivano dei panni appesi fra due palazzi di Shangai, considerata disonorevole. I casi sono molti, nel film del 2012 Red Dawn, ad esempio, l’esercito cinese nel ruolo del nemico è stato sostituito in post produzione da quello Nord Coreano. Più di recente nel remake di “Top Gun” – film co-finanziato da Tencent – dalla giacca di pelle di Tom Cruise sono sparite le toppe con le bandiere del Giappone e di Taiwan presenti nel primo film.

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(giubbotto di Top Gun, prima e dopo il mercato cinese)

Con un clima del genere – e soprattutto con la presenza crescente di co-produttori cinesi – film hollywoodiani come “7 anni in Tibet” o “L’angolo rosso” oggi sarebbero impossibili da realizzare. Non è esente dall’influenza cinese nemmeno un altro enorme comparto dell’intrattenimento: quello del gaming. Un caso recente ha visto Blizzard Entertainment, gigante americano da 7,8 miliardi di ricavi nel 2018 e creatore di World of Warcraft, negare un importante premio in denaro e squalificare per un anno un giocatore professionista che si era permesso di inneggiare alla libertà di Hong Kong. Anche i due giornalisti che lo avevano intervistato sono stati licenziati in tronco. Pressioni – efficaci – sono state fatte dalla Cina anche sulle compagnie aeree perché smettessero di indicare Hong Kong e Taiwan come nazioni indipendenti sui loro siti internet. Lo stesso tipo d’indicazione geografica che stampata su una t-shirt ha costretto Versace a delle scuse precipitose, la maglietta per altro conteneva anche un refuso nel nome “Brussels” ma non risultano richieste di scuse da parte del governo belga. Il caso degli Houston Rockets salta comunque all’occhio perché la NBA negli ultimi anni è diventata una specie di sogno liberale e meritocratico su scala mondiale: non importa dove nasci e che aspetto hai: se sei in grado di giocare a livello dei migliori ad aspettarti ci sono parecchi milioni di dollari. L’MVP della scorsa stagione è stato un greco di origine africana, la migliore matricola un diciannovenne sloveno bianchissimo che gioca come una star trentenne. La NBA in passato ha preso apertamente le difese di Enes Kanter, un giocatore turco – sodale di Fethullah Gülen e nemico dichiarato di Erodgan – nei confronti del quale Instabul ha emesso un mandato di cattura per terrorismo. La lega prende spesso posizione contro la discriminazione delle minoranze, in particolare quella afroamericana. Più in generale star, allenatori e giornalisti di settore si sono schierati sovente contro Trump, che dal canto suo attacca pubblicamente sia LeBron James che i fortissimi Golden State Warriors.

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(Trump vs Lebron)

Anche per questo motivo, i due giorni di intimorito silenzio dei nomi più noti del campionato e le scuse arrendevoli dei loro rappresentati, hanno colpito parecchio gli osservatori. Dove sono finiti tutti i combattenti per i diritti civili? Sono rimasti seppelliti sotto i miliardi di yuan e il dato di fatto che il mercato cinese è molto più grande di quello turco? Tutto questo accadeva nello stesso periodo in cui Richard Stallman, scienziato del Mit e fondatore del “Movimento per il software libero” (le cui conseguenze positive per l’economia americana si stimano nell’ordine dei trilioni di dollari) veniva licenziato in tronco perché in una mail listing privata – parlando di Marvin Minksy, un suo ex collega coinvolto nell’affare Epstein e ora defunto – si era prodotto in una breve riflessione sul fatto che il termine “sexual assault” fa pensare immediatamente alla coercizione fisica e per riferirsi a del sesso con delle ragazze minorenni apparentemente consenzienti sarebbe invece il caso di utilizzare un’ espressione più precisa “per evitare ogni vaghezza morale attorno alla natura della critica”. Che sia o meno condivisibile, questa singola riflessione linguistica – Stallman non è accusato di alcun tipo di rapporto improprio o illegale – è finita per costargli il lavoro, oltre alla faccia visto che i media di mezza America lo hanno dipinto come un depravato determinato ad assolvere moralmente gli stupratori. Di eccessi in seguito al #metoo ce ne sono stati diversi ma il caso di un uomo – un idolo di settore per altro – licenziato per aver osato intraprendere una riflessione semantica rappresenta probabilmente un nuovo vertice negativo. Nell’ansia di non offendere nessuno s’ignora lo stato di diritto – condannando gli accusati alla morte civile ed economica – e si forza spesso ogni posizione entro schemi manichei che riducono il mondo a buoni e cattivi. Chi viene relegato arbitrariamente sul lato dei cattivi perde ogni diritto ad un’opinione divergente. Diventa il male assoluto. Qualche inquietante somiglianza con la forma mentis del partito cinese salta all’occhio. Certo i due sistemi politici rimangono separate da differenze abissali, ma negli ultimi dieci anni la Cina è rimasta un Paese illiberale – semmai ha esteso la sua influenza censoria a livello internazionale – mentre gli Stati Uniti sono andati perdendo a colpi di safe-space, micro-aggressioni, politicamente corretto e crociate moraliste, una fetta importante del valore non negoziabile e condiviso della libertà di espressione. Durante questo processo sono finiti nelle maglie del repulisti anche degli autentici criminali e sono state condannate usanze del tutto deprecabili ma il prezzo che la società nel suo insieme sta pagando è alto. La storia del pensiero liberale insegna che il metodo prima o poi si rivela sostanza e sul lungo periodo finisce per contare più delle motivazioni sbandierate ai quattro venti. In altri termini, se si limitano la libertà d’espressione e le altre forme di garanzia che lo si faccia per un’idea che si ritiene buona, conta poco o nulla. Ogni movimento autoritario, vale la pena di ricordarlo, inizia sempre fregiandosi di buone intenzioni. Bret Easton Ellis nel suo ultimo, splendido, libro “Bianco” segnala una singolare somiglianza fra il pensiero dei guerrieri del politicamente corretto e la mentalità delle corporation, due forme di pensiero con alcune affinità elettive, entrambe si rivelano naturali antagoniste del dibattito e del pluralismo delle opinioni: per i militanti si tratta di imporre al mondo intero un verbo che ritengono assolutamente buono e indiscutibile, per le corporation si tratta proteggersi da ogni aggredibilità legale e mediatica tutelando così i propri bilanci.

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(Bret Easton Ellis)

Sostenere posizioni di principio, come la difesa della libertà d’espressione, può avere un costo economico elevato, anche senza bisogno di scomodare le dittature di oriente. In un simile clima politico e culturale uno stato antidemocratico come la Cina si permette di sparigliare le carte e, con un colpo quasi situazionista, si mette a parlare seriamente di “offesa” ai suoi cittadini, facendo scattare il meccanismo pavloviano di terrore che ormai si annida in ogni occidentale timoroso di dio al solo sentir pronunciare quel sostantivo. Da questo timore diffuso, istintivo, e non solo dalle motivazioni di danni economici nasce probabilmente il momento d’impasse della NBA e dei suoi giocatori. Il grottesco è evidente e sta nel fatto che il primo ad offendere i cittadini cinesi è in realtà proprio il regime antidemocratico che impedisce la loro autodeterminazione. Che uno Stato autoritario possa dirsi “offeso” senza che il mondo democratico scoppi in una sonora risata collettiva è uno degli aspetti inquietanti del nostro tempo, oltre che il segno del potere di ricatto dell’enorme mercato interno cinese. Se il primo nemico di ogni liberalismo è lo strapotere dello Stato, il secondo è l’esistenza di ricchezze enormi e di grandi squilibri, la cieca ricerca del profitto slegata da ogni impalcatura etica condivisa, per quanto minimale. Isaiah Berlin sosteneva che “la libertà totale per i lupi significa la morte per gli agnelli” e in modi, maniere e intensità diverse – per fortuna solo in minima parte sovrapponibili – oggi parte del sistema di regole che serve a proteggere gli agnelli, come il diritto a un giusto processo prima che venga comminata una eventuale condanna, o quello alla libertà di opinione anche quando questa finisce per offendere qualcun altro, sono sotto attacco dalla Cina come dall’America, dall’azione dello Stato autoritario come da quella delle corporation impersonali. Come detto però ci sono ancora molte grandi, fondamentali, differenze. Alla fine l’Nba, spronata in maniera bi-partisan dalla politica americana, ha prodotto una seconda dichiarazione meno sottomessa ai voleri del partito comunista e soprattutto più difensiva nei confronti libertà di opinione.

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(Adam Silver, commissioner della NBA)

 

Donald Trump, il noto troll di Twitter che nel tempo libero svolge funzione di presidente degli Stati Uniti, non è intervenuto sulla questione parlando direttamente con le autorità cinesi delle condizioni di accesso al loro mercato, ribadendo l’inderogabilità della libertà di espressione e rinforzando così l’unità nazionale americana, ha preferito invece ridicolizzare i due coach simbolo della NBA, Steve Kerr e Greg Popovich, per quanto si sono dimostrati arrendevoli di fronte alle richieste cinesi, contrariamente a quando polemizzano con lui – il che per inciso è inopportuno, ma vero. La storia naturalmente non finisce qui. l’Nba sembrava aver agguantato un pareggio in zona cesarini, forse ricordandosi che ogni regime ha bisogno di pane, sì, ma anche di giochi, e 600 milioni di persone costrette a guardare il mediocre basket cinese al posto dell’NBA forniscono anche alla lega un certo potere di contrattazione, non solo al regime comunista. Subito dopo però allo stadio di Philadelphia è stato vietato a dei tifosi di esporre dei cartelli pro Hong Kong e in Giappone è stato impedito a una giornalista di fare una domanda a tema Cina ai giocatori dei Rockets in tour. Sulla vicenda non resta che aspettare il monologo di Dave Chapelle, il comico che assieme a Easton Ellis è l’ultimo vero alfiere pop della libertà di espressione americana, specie ora che, nell’episodio di South Park censurato, Winnie the Pooh è stato ucciso con un laccio attorno alla gola da un americano che voleva ottenere un lasciapassare per il mercato cinese.

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COSA NON TORNA NELL’ULTIMO EPISODIO DI GAME OF THRONES

!Spoiler alert; serie 8 episodio 5!

(siete avvisati, anche se dopo tutto questo tempo dalla messa in onda o l’avete visto o non vi interessa veramente)

Come tutti gli appassionati di Game of Thrones sanno la penultima puntata in assoluto della serie è stata molto divisiva. Specie nel mondo anglosassone si sono moltiplicate le accuse agli sceneggiatori di essere “lazy” per aver adottato una sequenza di soluzioni narrative un po’ troppo semplici e quindi in contrasto con l’estrema accuratezza che ha caratterizzato la serie, o, quanto meno, l’ha caratterizzata fino alla sesta stagione. Credo che alcune di queste accuse siano fondate, ma che giunti a questo punto della storia le opzioni fossero al tempo stesso limitate. Vediamo perché.

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(Uno scorpio: da infallibile missile Patriot a cerbottana in sette giorni)

In molti si concentrano sulla mancanza di motivazioni solide dietro al raptus di follia assassina di Daenerys, e questo è, come vedremo più avanti, sicuramente un tema interessante. Lo snodo narrativo però più palesemente indegno di una storia come Game of Thrones è quello che riguarda gli scorpio, ovvero i balestroni anti-drago che sono rispuntati (dopo potenziamento) ovunque nel corso della 4° puntata della stagione, quando, nell’ordine, hanno abbattuto con disarmante facilità uno dei draghi (riducendo la flotta di rettili volanti di un notevole 50%), messo in rotta Daenerys con il drago rimanente e distrutto una quantità indefinita di navi Targaryen. In questo video ufficiale HBO lo staff della serie spiega genesi e potenza invidiabile dei nuovi scorpio. A questo punto chiunque, vedendo i balestroni appollaiati non solo sui ponti delle navi ma anche sulle torri di cinta di King’s Landing, è stato quindi (appositamente) portato a pensare: ecco una vera Ztl per draghi. Il che cambiava di parecchio le prospettive sulla battaglia successiva. Cambiava anche le quote-scommessa sulla corsa al trono perché con un altro abbattimento Daenerys si sarebbe ritrovata priva di draghi incenerenti e a quel punto il fatto che non sia mai stata proprio simpaticissima sarebbe potuto emergere presso le sue truppe. Lo scopo principale della 4° puntata sembrava essere quello di convincerci che l’armata Cersei grazie alla flotta di Euron + mercenari della Golden company + (soprattutto) nuova contraerea, fosse in una condizione di parità, se non addirittura di superiorità. Questo specie se si pensa per un momento anche agli ettolitri di Wildfire nascosti nei cunicoli della città, e che potevano essere usati, con il più tipico dei Cersei-move, per creare un Vietnam inespugnabile, a spese anche dei residenti di King’s landing, gente che tutto sommato avrebbe anche qualche ragione per non pagare le addizionali comunali. .

Insomma il cliffhanger della 4° puntata suggeriva apertamente possibili (serie) complicazioni sulla strada del legittimismo targaryano.

Già qui comunque avevamo assistito a una scena assolutamente non coerente con la real politik delle vecchie stagioni di Game of Thrones, quando cioè un minuto drappello con tutta l’élite dragomunita dei Targaryen si era messo a portata di scorpio e di arcieri di fronte alle mura di una città governata da una psicopatica conclamata come Cersei. La Lannister però dimostra che nelle scuole di Casterly Rock non si studia Tito Livio e si lascia miseramente sfuggire l’opportunità di tagliare tutti gli alti papaveri del fronte nemico e terminare così vittoriosamente la guerra senza nemmeno combatterla. Un’ingenuità decisamente poco Cersei. E già qui in molti abbiamo storto il naso.

La puntata numero cinque nasce comunque sotto gli auspici di una battaglia campale, poi però succede l’inspiegabile: Daenerys cala dal cielo con il suo ultimo drago e distrugge in circa 20 secondi tutta la flotta di Euron (non il piccolo drappello di navi che aveva abbattuto un drago con facilità bambinesca la puntata prima, ma tutta la flotta) dopodiché passa agli scorpio sulla costa e a quelli sulle mura, i quali dal canto loro dimostrano la precisione di tiro dei terroristi arabi nei film americani anni 80, ovvero non prenderebbero un elefante (o un drago) da 5 metri di distanza. In un paio di minuti senza nessuna spiegazione plausibile Daenerys distrugge quindi forze parecchie volte superiori a quelle che qualche giorno prima l’avevano messa in fuga con la codona di drago fra le gambe.

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(abbiamo scherzato)

Questo passaggio è talmente imbarazzante da un punto di vista narrativo che viene saltato a piè pari in entrambi i behind the scenes pubblicati da Hbo dopo la puntata ( questo e questo ). E stiamo parlando di speciali che spiegano sempre la genesi di tutti i passaggi importanti delle puntate. In questo caso invece no, probabilmente era un momento troppo indifendibile.

Perché una scelta del genere?

Il problema qui per gli sceneggiatori stava nel fatto che dopo la battaglia con i White Walkers si sapeva che Daenerys poteva scendere a King’s Landing e fare un grosso barbecue della città. Il massimo dilemma era quello morale, ovvero come prendere la città senza arrostire nel mentre tutti gli abitanti, gli stessi che, per inciso, si erano fatti malamente abbindolare da quel Beppe Grillo di Westeros che era l’High Sparrow. Insomma interessante, ma –gli sceneggiatori devono aver pensato– fino a un certo punto. Quindi serviva aggiungere tensione sulla battaglia imminente. Benissimo. Il problema è che, come abbiamo visto, poi non si prendono la briga di risolverla.

Come avrebbero potuto fare diversamente?

La prima opzione che viene in mente è che qualcuno della folta élite targaryana avrebbe potuto trovare il modo di rendere inutili gli scorpio, un Tyrion che corrompe il capo della guarnigione contraerea, un Ser Davos che infiltra dentro le mura un commando di assassini per uccidere gli operatori dei balestroni, un Samwell Tarly che fa sapere via corvo che esiste un batterio in grado di distruggere il legno di cui sono fatti gli scorpio. Quello che volete, pensandoci un po’ sopra di sicuro possono uscire idee migliori di queste. L’importante in questo scenario è che chi offre la soluzione al problema della contraerea faccia parte in una maniera o nell’altra dell’entourage di Daenerys. Immaginate che intensità ne sarebbe scaturita se fosse stato John Snow ad aprire la via al drago che subito dopo avrebbe incenerito decine di migliaia di innocenti. Sussurra ora, nordico che si scopava sua zia.

Il problema qui sta probabilmente nelle implicazioni successive, è molto probabile che affinché il finale si riveli d’impatto sia necessario coltivare una sensazione di onnipotenza di Daenerys. Se il suo successo in battaglia fosse subordinato ad una momentanea sospensione delle attività contraeree causata dei suoi stessi uomini, allora il suo dominio sembrerebbe meno imperioso, meno irrevocabile. E questo non va bene, perché quando e se sarà invece revocato sarà necessario che ciò avvenga attraverso il superamento di una notevole difficoltà e non, quindi, in venti secondi come fosse una flotta di Euron qualsiasi. Vedete qui quindi la contraddizione di scopi: da un lato per sostenere le sei puntate della stagione 8 bisognava comunicare la battibilità dei draghi (draghi onnipotenti stufano subito), dall’altra si era creato a questo punto della storia il bisogno di fornire di nuovo a Daenerys dei mezzi insuperabili. Da qui nascono quei due minuti imbarazzanti in cui spazza via tutto l’esercito nemico senza nessuna pretesa di plausibilità narrativa.

Si potevano trovare soluzioni alternative? Probabilmente sì, ma a questo punto dovrebbe essere evidente come non si trattasse di un compito facile, anzi.

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(Daenerys esporta la targaryancrazia a King’s Landing)

Infine la questione dell’ammattimento subitaneo di Daenerys. In realtà la cosa è stata annunciata più volte durante la serie ma sempre attraverso una serie di cenni e riferimenti che si sono dissolti dentro l’enorme massa narrativa di 8 stagioni caratterizzate da una miriade di storylines. Si poteva lavorare meglio sui cenni dell’imminente pazzia? Anche in questo caso probabilmente sì, ma senza esagerare, altrimenti Snow, Tyrion (che fa bruciare vivo il suo migliore amico), e il resto dell’oligarchia si sarebbero resi moralmente complici del massacro. Insomma, si trattava di un equilibrio sottile. Il problema vero qui sta nel fatto che Daenerys può avere dei motivi per cercare una vendetta sanguinosa nei confronti dei Lannister e in genere del potere kingslandiano, ma non si capisce – proprio non si capisce – perché dovrebbe bruciare vivi i residenti della città, così come parte delle sue stesse truppe.

Razzismo anti-westeros? Cos’altro?

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( E se li uccidessi tutti? La butto lì eh)

Nei behind the scenes ufficiali l’argomento viene trattato ma si parla soltanto di una vendetta contro gli usurpatori. Perché questa vendetta debba attardarsi a bruciare vivi degli innocenti rimane inspiegato. In ultima analisi anche questa è una sciatteria, se l’odio anti-Lannister si estende a tutto il popolo di Westeros va bene, ma sarebbe stato utile vedere uno o più episodi che con il senno di poi potessero rivelarsi seminali per questo tipo di razzismo estremo nella bambina dell’ovest diventata donna ad est.

Comunque la si metta, anche tenendo conto del fatto che le conclusioni sono sempre molto più difficili delle orchestrazioni intermedie e che qui la gestione del materiale era veramente complicata, rimane il dubbio che il vecchio George Martin avrebbe probabilmente ottenuto risultati migliori. Certo però impiegando molto, molto, più tempo.

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POLARIZZAZIONE

Appunti per “Polarizzazione”, una storia d’amore nel XXI° secolo.

Contrariamente a quello che accadeva alla maggioranza delle persone, nella vita di Luisa e Piero la politica era la cosa più importante, una sorta di ossessione personale. Vivevano entrambi come seguendo i dettami di una fede, un credo laico, per cui l’aderire o meno delle persone che andavano conoscendo nel corso della vita a una serie di regole, di non detti, di assunti pregiudiziali, segnava il confine fra l’essere davvero una persona oppure, al contrario, una specie di essere demoniaco, malvagio, al di fuori del consesso umano. O della loro bolla social, che per Luisa e Piero era la stessa cosa. Passavano molto tempo su twitter e avevano vite complessivamente poco stimolanti, una situazione alla quale il loro fortuito incontro – durante un aperitivo di Natale che celebrava la fusione delle aziende dove lavoravano – prometteva di mettere fine, sostituendo la misera dopamina di un retweet con l’appagante complessità di lunghi e gioiosi amplessi in grado di riconciliare un essere umano con l’universo, i suoi atomi, i suoi misteri. Purtroppo per il loro amore, le loro posizioni politiche – le stesse in cui si era divisa l’Italia in quel periodo– erano fra loro assolutamente inconciliabili. Per Luisa un politico serio poteva solamente esporre cibo sui social, per Piero invece poteva anche consumarlo durante una diretta facebook. Si lasciarono senza superare mai davvero il rammarico per quello che sarebbe potuto essere e invece non era stato.

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Reportage: L’anomalia

 

«Quando giochi con il limite, spari mirando a un bersaglio.

Senza il limite, il bersaglio prende vita e spara a te».

Crandell Addington a proposito del Texas Hold’em no limit

Una coppia di inglesi dalle pelli lattiginose getta pezzi di pane verso un banco di cefali, le schiene argentee s’inarcano, l’acqua si solleva, un attimo dopo gli esemplari rimasti a digiuno scattano nervosi attorno al vuoto. È giugno e sono seduto in un ristorante di Budva, in Montenegro. Un cameriere allampanato liscia con qualche parola in italiano i clienti al tavolo di fronte, un gruppo di giocatori baresi di slot che parlano con il regolamentare tono di voce troppo alto. Sono appena arrivati con un charter assieme alle loro camicie floreali impossibili e agli occhiali da sole, ordinano vassoi di pesce che domani, dopo una notte di gioco in perdita, potrebbero generare inediti dubbi di opportunità. Alle nostre spalle montagne brulle, di fronte l’Adriatico, nel mezzo una statale nuova che collega un agglomerato urbano irregolare fatto di casinò, sale scommesse, case vacanze per ricchi, e parcheggi pieni di Porsche Panamera e Range Rover nere.

Stamattina, a Fiumicino, una giovane addetta Alitalia con il badge identificativo coperto da un foglietto che recitava «Odio tutti», mi ha messo in mano il biglietto per il volo Roma-Podgorica e si è voltata prima che le facessi notare che i sentimenti più belli sono sempre quelli ricambiati. Un’ora scarsa di volo dopo, l’Embraer si è preparato all’atterraggio compiendo cerchi sempre più stretti sopra il lago paludoso alle porte di Podgorica, dove la pianura e l’acqua condividono una lunga terra di mezzo.

All’aeroporto ragazzi in maglietta hanno lanciato le valigie sui cassoni di due trattori marca socialismo reale, e dieci minuti dopo un tassista del casinò ha caricato su una Toyota Prius la mia unica valigia. Per un’ora di viaggio lui, grosso, rasato e silente, ha ascoltato dosi da centro sociale di ska balcanico, e io, medio, arruffato e sotto antibiotici, ho fissato lo schermo digitale che illustrava in tempo reale il funzionamento di un propulsore ibrido, ho guardato le case nuove di zecca con i tetti rossi di Sveti Stefan e mi sono appuntato che il primo taxi provvisto di wi-fi di bordo che prendevo in vita mia copriva la tratta Podgorica-Budva.

A un certo punto, stupito dall’ottima qualità delle strade, ho chiesto al tassista come andava l’economia.

«Male».

Poi di nuovo una lunga e ininterrotta distesa di ska balcanico.

Ora, seduto al ristorante, lancio a mia volta un pezzo di crosta lontano dal banco di cefali. Uno guizza nella mia direzione, il resto del gruppo gira a vuoto continuando a confidare negli aiuti da oltremanica. Se il livello della competizione si alza, a prosperare sarà il più forte, o colui che è in grado di vedere pezzi di pane dove fino a quel momento nessuno è stato in grado di scorgerli. Il primo è il barbaro tradizionale, che sotto sembianze sempre diverse attraversa la storia come una costante di sopraffazione, il secondo è l’espressione, della legge ugualmente darwiniana, che per la sopravvivenza talvolta l’intelligenza può più della forza. A forse cento metri da qui, nel casinò di cui sono ospite, un centinaio di emuli umani dei pesci satura un salone con il rumore incessante che fanno le pile di fiche quando le tormenti tra le dita. È in corso un torneo di Texas Hold’em no limit su due giorni, in cui ognuno dei giocatori punta a essere l’anomalia in un sistema di sconfitti. Continua su STORIE DAL MONDO NUOVO ( ADELPHI)