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Daniele Rielli

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Non censuriamo la battaglia.

Pubblicato su Domani il 19.10.20.

DELLA BATTAGLIA

Nel numero in costante aumento di modi di dire che alcuni vorrebbero bandire per sempre, uno colpisce in maniera particolare. Si tratta dell’espressione – principalmente giornalistica, ma talvolta usata nel linguaggio comune – secondo la quale una persona muore “in seguito a una battaglia” o “dopo aver perso una battaglia” contro una malattia.

Questo ennesimo tentativo di polizia del linguaggio è più importante di altri per almeno due motivi. Il primo è che riguarda chi ha sofferto fino a perdere la vita, lasciandosi il più delle volte alle spalle persone addolorate e decise a difendere la memoria del defunto, perciò il solo discuterne richiede rispetto, una certa dose di cautela e di empatia; il secondo è che il fatto stesso che esista una discussione del genere è emblematico di un cambio netto nelle idee oggi più diffuse attorno alla condizione umana.

COLPEVOLIZZAZIONE

Secondo i suoi detrattori un’espressione come “perdere la battaglia con una malattia” sarebbe offensiva perché andrebbe a infierire sulla vittima, colpevolizzandola. S’insinuerebbe insomma l’idea che nel momento in cui si perde una battaglia questo accada inevitabilmente perché non ci si è impegnati abbastanza. Una convinzione del genere implica a sua volta l’idea che l’uomo abbia la possibilità di controllare ogni aspetto della sua esistenza, oltretutto per un periodo indeterminato – potenzialmente infinito – di tempo e che superare ogni problema sia in ultima analisi sempre una questione di volontà di potenza. Una posizione tanto assurda da risultare per l’appunto estremamente significativa e meritevole di una riflessione.

In un certo senso è come se anni di telefilm di scarsa fattura che ripetevano “Sii te stesso e potrai fare qualsiasi cosa” e di pubblicità ispirazionali (dal Just do it della Nike in giù) si fossero fusi con le tante altre nervature ugualmente irrealistiche dello Zeitgeist per trasformarsi gradualmente in un substrato condiviso patologicamente negazionista, non solo rispetto alla natura della vita umana, ma anche, più modestamente, nei confronti del concetto di battaglia.

L’ESSENZA DELLA VITA

Chiunque affronti davvero una battaglia, sia essa contro una malattia, per imparare qualcosa, per riuscire in un lavoro o contro un’altra squadra in uno sport, sa che non esistono ricette sicure per la vittoria e capiterà prima o poi che anche la battaglia affrontata con il massimo dell’impegno, del talento e della tattica si risolva comunque in una sconfitta. È questa la natura della battaglia, giacché la battaglia che si può vincere con assoluta certezza non è tale. Una parte fondamentale dell’età adulta risiede proprio in quello spazio scomodissimo in cui in seguito a una dura sconfitta ci s’interroga sulla adeguatezza delle proprie azioni: il fardello dell’adulto è cioè quello di non poter mai sapere davvero se si è fatto tutto il possibile e ci si è arresi al destino oppure se qualcosa poteva essere fatto meglio conducendo così a esiti migliori. Da bambini seguiamo le indicazioni dei nostri genitori, da adulti tocca a noi l’onere dell’analisi, così come tocca sempre a noi quello, ancora più pesante, del decidere se prendere per buone le conclusioni a cui siamo giunti. Quel che è peggio, il tempo procede su un piano unico e irripetibile, non ci offre mai una seconda possibilità per risolvere lo stesso problema, ci fa semmai dono di un’esperienza che potremmo utilizzare per provare a risolvere i problemi futuri. Questo processo di valutazione, ripensamento e formulazione di nuovi tentativi per interpretare e capire il mondo è la forma più ampia e onnicomprensiva della battaglia, è l’attività principale di una vita.

La battaglia è sempre un campo di possibilità aperte, la vita un tentativo di attraversarlo indenni, il risultato non è mai garantito. Sapere tutto questo equivale a conoscere una delle regole fondamentali dello stare al mondo: chi l’interiorizza può stimare i vittoriosi ma rispetterà sempre i perdenti, soprattutto saprà che prima o poi finirà per provare entrambi i sapori e potrà al massimo ambire ad agire sulle dosi attraverso l’intelligenza, il lavoro e l’impegno. Senza per questo smettere mai di confidare nella fortuna. (Continua a leggere su DOMANI)

Illustrazione Doriano Strologo

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L’età del tribalismo (intervista a Minima & Moralia)

Di Nicola Pedrazzi

Intervista apparsa su Minima & Moralia il 24/07/2020

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odioappena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio. Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

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Andrew O’Hagan e la scissione digitale dell’io

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Sabato 25 novembre alle ore 17 sarò alla Triennale di Milano per un dialogo con O’Hagan intitolato “Vite segrete e identità digitali” nell’ambito di #Studiointriennale.

Articolo pubblicato su La Stampa – 11.11.17. 

Provate a immaginare la prossima polemica online, probabilmente non riuscirete ad indovinarne il contenuto, ma avete buone possibilità di sapere, fin da ora, come si svilupperà. Ci sarà un forte presa di posizione di stampo morale contro una persona (pubblica o fino a quel momento sconosciuta, è quasi indifferente), seguirà un linciaggio digitale poi la notizia uscirà dalla bolla di pensiero unilaterale in cui ha preso forma e arriverà a qualcuno che prenderà con forza le parti dell’accusato. A chiusura del ciclo qualcun altro farà notare che questo sviluppo, compreso anche il suo commento, è il frutto della ferrea legge che regolamenta ogni “flame” ovvero di ogni polemica su internet. A questo punto si passerà al prossimo rogo rituale.

In altri termini ogni possibile valore di verità di una proposizione è contenuto ed esplicitato di per sé stesso appena la proposizione entra nel web. Estremizzando un po’ e guardando il tutto da una distanza sufficiente, è la notte dove tutti gli status sono veri e falsi contemporaneamente. Si potrebbe obbiettare che in fondo questa è sempre stata la struttura di ogni dibattito, ma l’accelerazione del tempo, l’universalità dell’accesso e l’incessante ripetizione del processo, sono cose che solo internet rende possibili e portano la crisi del concetto di verità ad un livello inedito.

Sarebbe materia per diversi saggi, ma Andrew O’Hagan in La vita segreta utilizza un approccio probabilmente più efficace, considerato lo stato di disgregazione del discorso, e scrive tre exempla sul tema dell’identità. Se il discorso pubblico, afflitto da bulimia digitale, non gode di ottima salute, cosa dire del concetto stesso di identità?

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La vita segreta di Andrew O’Hagan

O’Hagan affianca per lungo tempo tre persone che esemplificano, appunto, una parte importante dello spirito d’internet: il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, il presunto Satoshi Nakamoto (Craig Wright) ovvero il misterioso inventore del Bitcoin e della Blockchain – una tecnologia che oggi viene considerata dagli investitori l’equivalente di internet negli anni ’90 – , e Ronnie Pinn, un’identità totalmente fittizia creata da O’Hagan a partire dal certificato di nascita di un ragazzo morto in giovane età, un avatar che si rivelerà in grado di comprare marjuana, eroina ed armi sul deep web, così come di avere amici su facebook e un piccolo manipolo di follower su twitter.

Il lavoro di ricerca di O’Hagan è oggettivamente imponente, così come lo è la massa di dati che si trova a maneggiare, informazioni che spesso non sono facili da comunicare in una forma non specialistica, ma a parte qualche rallentamento, soprattutto nel pezzo sul presunto Satoshi, la capacità espositiva dello scrittore scozzese è notevole. A fuoco appaiono soprattutto le osservazioni attorno al tema dell’io nel tempo del web – la rete – sostiene lo scrittore – ha privato la letteratura del monopolio sul tema classico del “doppio”, scalandolo, per usare un termine caro al mondo digitale, a questione del “multiplo”.

Così il militante Assange si rivela un piccolo despota, incoerente e viziato, perennemente in guerra con gli esponenti della sua fazione, pubblicamente è un simbolo della trasparenza assoluta ma privatamente è scorretto e ossessionato dal controllo, una sorta di rovescio grottesco delle istituzioni che attacca. O’Hagan è bravo abbastanza da far sorgere il dubbio che Assange giochi semplicemente un’altra partita, quella in cui ogni azione e ogni frase nel mondo reale sono pensati solo come armi da brandire su twitter e sulle altre arene digitali, lì dove si gioca la battaglia per il consenso attorno ai princìpi generali. Lo fa passando con indifferenza sopra le persone reali, incapaci di fornire la stessa ricompensa adrenalinica di un plebiscito digitale.

Più interessante ancora è la figura di Craig Wright, costretto da alcune disavventure economiche a rivelare la sua identità di Satoshi Nakamoto, o quanto meno di membro della squadra che ha creato Satoshi. Nel farlo è ossessionato dalle persone che non crederanno alla rivelazione, sa di avere un pessimo carattere, pressoché nessun carisma e di non essere complessivamente all’altezza del mito di Satoshi e incomincia così a sabotarsi in maniera sistematica. Scisso fra diverse identità, tra il desiderio di rimanere nascosto e quello di ricevere riconoscimento, prova il desiderio di primeggiare ma sempre attraverso il filtro di sicurezza di un computer.

Il libro di O’Hagan è soprattutto questo, la storia di persone prive di capacità sociali (o addirittura inesistenti) che grazie alla conoscenza della macchina raggiungono un potere enorme sul resto dell’umanità, eppure trovano il loro vero sé solo davanti ad uno schermo, perché solo la macchina tutela la loro natura molteplice e gli permette di essere contemporaneamente una cosa e il suo contrario.

“LASCIA STARE LA GALLINA” Rassegna stampa

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RECENSIONE SU STYLE-CORRIERE DELLA SERA di Severino Colombo

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Recensione sul “Nuovo quotidiano di Puglia” di Teo Pepe

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IO DONNA ( corriere della sera)

Lascia stare la gallina di Daniele Rielli

di Francesca Cingoli

Lascia stare la gallina

Lascia stare la gallina è un racconto a più voci che non dà tregua. Protagonista è la terra di Salento, piena di luce ma anche di tanta ombra: è l’ombra minacciosa della delinquenza, fatta di contrabbandieri, piccoli spacciatori, poliziotti corrotti, faccendieri, prostitute.

Le voci narranti, da punti di osservazione diversi, si fondono in un racconto di minaccia incombente: l’ex poliziotto, che gestisce con sinistra disinvoltura una pletora di attività e aspira alla massoneria, il suo socio, diviso tra ristorazione e prostituzione, lo spacciatore un po’ fricchettone, molto sballato ma sempre attento, il giornalista idealista e marxista, che vorrebbe cambiare il mondo, la sua fidanzata, che gioca una doppia partita.

Tutto parte da un assassinio in campeggio, ragazzi che dal nord arrivano in Salento per vivere la libertà del mare: canne, sesso in spiaggia, dancehall e musica rap. Una selva di studentelli, deejay e punkabbestia, terreno multicolore di divertimento che ingolosisce la piccola grande criminalità locale. Si parte da questo, ma i giochi si fanno negli studi eleganti di avvocati e politici, sugli yacht, e nelle ville di quelli che contano. Perché sono l’ambizione e il potere le forze che muovono i fili della trama, fitta ma solo in apparenza complicata.

Un linguaggio brillante, che elettrizza, inchioda alla lettura. Non è tanto l’intrigo, il filo del giallo, a non consentire al lettore di alzare gli occhi dalle pagine, quanto la scrittura, serrata, ironica in maniera sorprendente, tagliente, che azzarda anche il dialetto e non sbaglia. Un libro da leggere, oltre 600 pagine che scorrono vivaci, spietate, brillanti.

Recensione di Gianni Santoro su Repubblica

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INTERVISTA AL NUOVO QUOTIDIANO DI PUGLIA  di Valeria Blanco

Quando tutti osannavano il Salento dei beach party, i suoi reportage ne mettevano a nudo, con sarcasmo, i meccanismi perversi. E quando il Movimento 5 Stelle raccoglieva il 25% dei voti, un’analisi sul suo blog – che poi gli è valsa il Macchianera italian award 2013 come miglior articolo dell’anno – illustrava i cinque buoni motivi per non votare Grillo. Il fatto che allora fosse “solo” un blogger, nascosto dietro lo pseudonimo di Quit the doner (Basta con i kebab, ma questa è un’altra storia), non cambia la voglia di Daniele Rielli di offrire uno sguardo sorprendentemente inedito sulla realtà.

Il caso e le origini leccesi vogliono che il romanzo sia ambientato nel Salento, metafora della provincia italiana. Inutile dire che il quadro non è quello del sole, del mare e del vento a cui il marketing territoriale ci ha abituato. Si tratta di un romanzo corale e complesso, con un massiccio uso del dialetto e una sottotrama noir. E, a guardare in controluce, dietro la storia dell’arrampicatore sociale s’intravede il tramonto di una società che, troppo concentrata a difendere i suoi privilegi, non si accorge che sta per estinguersi, superata e travolta dal mondo. Ed è proprio da qui che parte Rielli per raccontare “Lascia stare la gallina”. Continua a leggere

 

INTERVISTA AL “CORRIERE DEL MEZZOGIORNO” di Michele De Feudis

 

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Intervista a “La Gazzetta del Mezzogiorno” di Fabio Casilli

 

 

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INTERVISTA SU RIDERS

di Lorenzo Monfredi

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“LASCIA STARE LA GALLINA” (Bompiani) è in libreria

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(2° edizione agosto 2015)

Arguto come un racconto di Flaiano, vorticoso come un trip di Irvine Welsh

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Un film in attesa di essere girato

La Repubblica

 Un romanzo italiano tra i migliori degli ultimi anni

Wired

Dopo “La Ferocia” di Nicola Lagioia un nuovo romanzo accende i riflettori sulla parte di società meridionale in cui bene e male sono indistinguibili

Il Giornale

Un affresco morale sul potere nell’italia di oggi

Venerdì di Repubblica

Un racconto a più voci che non dà tregua. Un linguaggio brillante, che elettrizza, inchioda alla lettura. Una scrittura serrata, ironica in maniera sorprendente

Io Donna- Corriere della sera

Un vero professionista della parola scritta (…) Violenza tanta, energia moltissima. Sesso, droga, e dance hall.

Quotidiano di Lecce

Non è solo un thriller ma anche una commedia tragicomica sulle impudenze (e gli impuniti) della scalata al potere.

DonnaModerna

Un libro totem che ogni salentino dovrebbe leggere

Lecce Prima

Un breaking bad salentino formato cartaceo

Finzioni

“Lascia stare la gallina” è nella decina finalista del

Premio-sila-49

LASCIA STARE LA GALLINA è in tutte le librerie e su:

Amazon

Ibs

Feltrinelli

Tour di presentazione #gallinaovunque

GALLINAOVUNQUE

#gallinaovunque

Prossime date:

30.08 Ostuni- Ostuni pop Caffè frida ore 20.30

04.09 Treviso – HOME Festival

Date passate

Torino 17 maggio- h 15. 00 Stand Ibs.it – Salone del libro Host: Madaski ( Africa unite)

Milano 26 maggio h. 18. 30  Santeria. Host: Marco Alfieri

Prato 27 maggio h. 18  Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci. Incontro per la serie Changes “Da inchieste a storie: il futuro del giornalismo” Host: David Allegranti

Firenze 3 giugno Feltrinelli P.zza della repubblica h.18.30 host Mario Cristiani

Bologna 5 giugno Feltrinelli due torri h 18 host Ivano Porpora

Roma 10 giugno h 19.30 Giufà host Gipi

Milano 13 giugno h.18.30 Open ( questa non è una presentazione del mio libro ma parlerò assieme ad Andrea Girolami del suo di libro, che è molto bello anche se non ha una gallina in copertina e non succedono cose turpi)

Bolzano 18 giugno h.19 Pippo stage host: Fabio Gobbato

Trento 19 giugno h 18 Bookique Trento feat Anansi

Lecce 27 giugno Feltrinelli

Cosenza 28 luglio Libreria Mondadori  (premio sila 49)

Gubbio – Doc Fest 9 agosto

Torre dell’Orso (le) 11 Agosto La Casaccia

San Cataldo (le) 18 Agosto Lido York

 

per richieste di organizzazione di presentazioni o incontri   quitthedoner@mail.com

 

IMG_2661(Torre dell’Orso. Uno dei luoghi del romanzo)