Articoli | Daniele Rielli | Daniele Rielli – IL FUOCO INVISIBILE è in libreria | Pagina 7

Carrère e il principo di indeterminazione

Heisenberg

(Questo articolo è uscito il 18-03-17 su “Tuttolibri”, La Stampa)

Per provare a capire il grado di realismo di un racconto, Emmanuel Carrère propone il “criterio dell’imbarazzo”. Se incontriamo un dettaglio che l’autore deve avere verosimilmente pensato di eliminare perché imbarazzante o in qualche modo scomodo, avvertiamo un istintivo “senso di verità”. Non è solo una dichiarazione di principio ma anche un criterio operativo in grado di attraversare l’intera opera di Carrère, o almeno la sua fase più nota, quella della non-fiction. Pochi autori contemporanei hanno fatto come Carrère del culto – e dell’esibizione- del dettaglio scomodo, delle pulsioni che i più preferirebbero tacere, un marchio di fabbrica.

Ogni appassionato dello scrittore francese ricorda la lunga lettera erotica alla compagna pubblicata sulle pagine di Le Monde (oggi contenuta all’interno dello splendido “La mia vita come un romanzo russo”) una storia con un epilogo che sarebbe stato sommamente umiliante se solo il primo ed esibirlo non fosse Carrère con quel misto di stoicismo ed egocentrismo dichiarato che contraddistingue il suo stile. I lettori si dividono fra chi è infastidito da una prospettiva così apertamente egotica e chi invece coglie i due messaggi sottointesi a questo approccio. Il primo è: sono fallibile e imperfetto come tutti gli altri, seppur a modo mio – come appunto tutti gli altri. Il secondo, forse ancora più importante, è che l’unico racconto onesto possibile sia quello dichiaratamente soggettivo.

“Propizio è avere dove recarsi” è uno zibaldone composto di articoli, reportage, recensioni, discorsi e lettere che attraversano quasi trent’anni di carriera, un libro con cui è possibile entrare nel cantiere aperto del lavoro dello scrittore francese e in cui è sovente lui stesso a riflettere apertamente sulle tecniche che utilizza e sui loro significati. Centrale in questo senso è il discorso su “A Sangue freddo” di Truman Capote, uno dei testi fondanti della non-fiction contemporanea, un paradigma ingombrante con cui Carrère si confronta quando decide di scrivere un libro su Jean-Claude Romand, un impostore che dopo aver fatto a credere a tutti per anni di essere un medico quando in realtà non era nemmeno laureato, sterminò la famiglia, i genitori e il cane. All’ultimo momento, quando dopo anni di ricerche Carrère si è ormai deciso ad abbandonare il progetto anche a causa dell’incapacità di convivere con il fantasma di Capote, riesce finalmente a sbloccarsi inserendo nella storia sé stesso, la sua famiglia e il suo mondo.

Come un fisico quantistico Carrère riconosce l’impossibilità di indagare nel profondo della materia senza che il suo scrutare causi dei cambiamenti nell’oggetto osservato, ed è proprio questa consapevolezza a cambiare tutto. Quello che in campo scientifico si chiama “principio d’indeterminazione”, in campo letterario si traduce in un approccio in cui l’onestà intellettuale non deriva più dalla pretesa equidistanza di un narratore onnisciente dai personaggi del racconto, ma al contrario dalla dichiarazione esplicita della peculiarità dell’osservatore, del peso ineliminabile non solo del suo agire ma anche delle sue convinzioni pregresse, delle sue aspirazioni e della sua storia personale. Qualsiasi cosa sia “La Verità” in Carrère rimane sullo sfondo come una particella inconoscibile o un noumeno kantiano, quello su cui possiamo invece mettere le mani è la versione del narratore, accuratamente filtrata attraverso le sue idiosincrasie e le sue ossessioni.

Nel caso di Carrère questo si traduce in uno scrittore che non fa mistero della sua estrazione alto borghese e del fatto di vivere con una giornalista “in una zona decisamente radical chic” di Parigi, capitale di un Paese “in una fase di lento declino” e di “mobilità sociale ridotta”. Se in certi momenti il maggior desiderio di Carrère sembra essere per sua stessa ammissione comprare una casa in Grecia, a questo orizzonte aspirazionale ben delimitato e apparentemente privo di rischi, corrispondono una serie di ossessioni personali per la violenza, la morte, la follia, ma anche l’ammirazione per la freddezza della madre ( il motto materno “Never explain, never complain” risuona in tutta l’opera di Carrère come una sorta di stella polare irraggiungibile, ne è prova il fatto che la sua, di freddezza, Carrère l’argomenta per mestiere) o ancora un’attrazione per una Russia a metà fra avamposto di frontiera senza legge e luogo dell’anima dove sono ancora possibili sentimenti non viziati dall’ironia post-moderna che affligge la vita di un intellettuale parigino benestante che ritiene di aver già visto tutto.

È così che nelle pagine di “Propizio è avere dove recarsi” vediamo Carrère piangere a dirotto al cospetto di un coro di bambini di una scuola elementare di Mosca che prendono molto sul serio il loro compito. È chiaro, dati questi presupposti, che il racconto di Carrère non ha mai la pretesa di essere oggettivo, ammette ad esempio di non sapere fin dove arrivi il vero Limonov e dove inizi invece quello della sua fantasia. Ogni tanto nelle sue storie appare un’interferenza rivelatrice, come quando intervistando una giovane fotoreporter individua nella sua sicurezza i segni di un’origine benestante, ipotesi che la diretta interessata smentisce fra le risate. Piccoli episodi a parte la controprova manca quasi sempre – e dovremmo comunque affidarci alla volontà dell’autore di riportarla- bisogna quindi fidarsi ed in fondo va bene così, è il senso dell’intera operazione e a ben guardare è qualcosa che finiremmo per fare comunque anche partendo da presupposti diversi, meno trasparenti. Il tutto funziona anche perché l’abilità nel mettere in dubbio l’io narrante, l’autoanalisi impietosa e destrutturante della sua psiche è forse la più notevole delle qualità letterarie di Carrère, un capacità di decodifica di portata tale che gli si perdonano alcuni vizi minori come una pressoché totale mancanza di ironia, qualità temuta e un po’ disprezzata per ragioni che lui stesso ci suggerisce appunto biografiche.

Il libro ha molto da offrire anche ai lettori meno interessati a questioni tanto teoriche, contiene reportage memorabili sul misterioso autore del bestseller degli anni 70 “L’uomo dei dadi” o sul meeting economico di Davos, un ottimo profilo biografico di Alan Turing, un buon numero di viaggi in Russia e uno in Romania sulle tracce di Dracula. Tutto materiale che ricorda come prima ancora di essere un’anima tormentata che ha osato dichiarare il peso del punto di vista nella scrittura, elefante nella stanza del conformismo letterario, Carrère sia un eccezionale narratore.

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MUGELLO, L’ULTIMO GRANDE RAVE (Reportage)

La pianificazione è andata avanti per mesi, attraverso un gruppo di WhatsApp. Correva via 3g una cospirazione di stampo motociclista finalizzata a presenziare al Gran Premio d’Italia 2016 del MotoGp, quello della possibile, grande rivincita di Valentino Rossi. Si trattava d’infilarsi nel centro esatto di quello che i giornali di solito liquidano come una specie di allegro sfondo colorato racchiuso nelle formule “grande atmosfera” o “popolo giallo”, oppure sintetizzano con un numero di quelli che non riescono a rappresentare nemmeno lontanamente ciò che indicano: centomila persone.

La prima cosa che penso una volta fuori dalla tenda con vista notturna sulle curve dell’Arrabbiata, è che sarebbe più corretto parlare di ultimo grande rave italiano. La notte prima del Mugello però non si suona house, techno, o drum and bass, ma motoseghe. O meglio: c’è anche musica, più o meno ovunque, ma la competizione fra dj con i muri di casse e le Husqvarna, la vincono a mani basse le seconde. Da qui si origina lo slogan ormai mitologico: «Al Mugello non si dorme» scandito ad ogni angolo, ad ogni ora: la promessa d’insonnia è la prima regola del fight club degli amici della miscela. Il biglietto d’ingresso è quello Night&Day per il prato, ovvero tutto ciò che circonda il circuito e non è né tribuna né paddock; le tende sono ovunque, anche fuori dai bagni, così come i camper.

Il pratone è una specie di anello incompleto, manca un lato, un accampamento lungo chilometri in cui gruppi di ragazzi camminano agitando le motoseghe, private della cinghia e della marmitta e spesso con l’aggiunta surrettizia di trombe d’amplificazione. Quando accelerano persone di tutte le età, e nell’ordine delle decine di migliaia, esultano. Alle volte le motoseghe crescono, diventano tosaerbe o veri e propri motori, di moto o di auto, smontati dai loro mezzi d’origine e uniti a scarichi lunghi un metro e mezzo, accrocchi che hanno due scopi: fare un rumore che attraversa la valle da pendice a pendice, ed emettere fiammate come draghi futuristi. Il rumore è il rumore, dotato quindi di un suo valore intrinseco, ma qui è anche la rappresentazione immobile della velocità.  Quando di giorno una moto sfreccia nella pista di sotto non si manifesta mai senza rumore, stridulo quello della Moto Tre, monotono quello della Moto Due, imperioso, grasso e per definizione più interessante, quello della MotoGp. E così ogni motosega è casino, ma è anche una preghiera e un riferimento alla sostanza divina e non replicabile della velocità. O almeno questo è quello che mi sembra perfettamente sensato al quarto vodka-tonic. Continua su STORIE DAL MONDO NUOVO ( ADELPHI)

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Reportage: DISRUPT

 

Whatever form it takes, the underlying propellant is an inexhaustible thirst for knowledge.

MICHAEL MORITZ

Walking around San francisco, it strikes me that this cannot end well, that combination of magical thinking, easy money, greedy investors, and amoral founders represent a recipe for disaster

DAN LYONS

Il primo dice proprio «Con questa invenzione cambieremo il mondo», come in Silicon Valley la serie HBO su un gruppo di startupper americani. Fa niente che l’olandese sul palco, qui al Tech Crunch Disrupt di Londra, stia presentando una doccia elettronica. Certo, dotata di tecnologia digitale, e di un filtro autopulente che in teoria dovrebbe permettere di farvi la doccia sette volte con la stessa acqua – una specie di fontana pubblica 2.0 –, ma la chiusa suona comunque un po’ sopra le righe. La propensione all’iperbole, solo apparentemente politico-morale, riflette in pieno lo spirito dell’economia delle startup e dell’evento organizzato da Tech Crunch, uno dei più influenti – e competenti – siti tecnologici al mondo.

Per arrivare qui, ieri sera sono atterrato in un aeroporto fuori Londra dove tutta la procedura d’ingresso è automatizzata come in una puntata di Black Mirror. Un percorso forzato dentro delle transenne mi ha diretto dentro dei tornelli, lì una telecamera nascosta dietro un vetro ha analizzato il mio volto, mentre un’altra scannerizzava il mio passaporto, infine, con un lieve rumore pneumatico, la barriera si è aperta permettendomi l’ingresso in Gran Bretagna senza che nel processo avessi avuto a che fare con alcun essere umano.

Ora Jordan Crook, una ragazza che ricorda la standup comedian Amy Schumer e che alla veneranda età di ventisette anni è presentatrice e senior writer di Tech Cruch, prende in giro con ironici modi da maschiaccio il pubblico per lo scarso entusiasmo. I presenti in effetti ascoltano attentamente e prendono appunti sui loro MacBook (entrare qui costa 600 euro al giorno, più IVA), ma non ruggiscono in maniera primordiale ogni volta che qualcuno mostra una nuova funzionalità su uno schermo. Non c’è insomma il clima a metà fra un sabba e un discorso di Mel Gibson in Braveheart che contraddistingue i Keynote Apple. Siamo in Europa, e si sente. Atteggiamenti della platea a parte, il Disrupt del titolo starebbe a significare che qui le cose si cambiano sul serio, si ricomincia da zero, si cambia il mondo. «In meglio» è un postulato automatico che non deriva da valutazioni filosofiche, politiche o da bar, ma in modo molto lineare dal successo sul mercato dell’azienda con propositi rivoluzionari: se il nuovo servizio genera profitti e diventa «un unicorno», ovvero supera la valutazione di un miliardo di dollari – il famigerato billion sotto il quale qui non sei nessuno – allora il cambiamento è stato necessariamente per il meglio e per l’umanità tutta, non solo per quelli che hanno visto il miliardino, reale o teorico, depositarsi fragrante sui loro IBAN. Nei discorsi dietro le porte della Copper Box Arena, al centro del Queen Elizabeth Park, il resto dell’umanità esiste solo ed esclusivamente in forma di consumatore. Migliorare il mondo significa realizzare servizi digitali che le persone vogliano usare, un utilizzo che è considerato la più assoluta forma di consenso. Altro non serve, anzi è un impedimento che va superato, tanto meglio se chi lo pone è un vecchio dinosauro analogico: quando capirà da dove è arrivato il meteorite, per lui sarà già troppo tardi. Giornalisti, albergatori e tassisti ne sanno qualcosa. Tutto questo è Disruption.  (CONTINUA  SU STORIE DAL MONDO NUOVO (ADELPHI))

Porcellum: il Parlamento italiano è illegittimo?

IL RETROSCENA DEL RETROSCENA DEL RETROSCENA. VIAGGIO NEL GIORNALISMO PARLAMENTARE.

 

«Non ce la faccio più» spiega un collega giovane e sveglio che fa cronaca parlamentare da molti anni, a mo’ d’incoraggiante introduzione nel magico mondo della politica vista da vicino. Siamo seduti su un divano del Transatlantico, il luogo dove si fabbricano quelle cinque, dieci pagine dei quotidiani in cui i politici si mandano messaggi a vicenda sulla testa dei lettori. Da questo salone lungo e discretamente sfarzoso arrivano la maggior parte dei retroscena, spesso quelli più irrilevanti, visto che per comunicare le informazioni buone ed esclusive ci sono metodi migliori, strategie visionarie e clandestine come: mandare un sms. Qui lo struscio di politici, giornalisti e commessi non conosce sosta, e si confabula alacremente. La topografia del potere è abbastanza intuitiva: le figure importanti stazionano in un punto, quelle medie si coagulano attorno a loro, i cazzoni alla base della piramide sociale (io) vanno avanti e indietro.Continua su STORIE DAL MONDO NUOVO ( ADELPHI)

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Reportage: L’epidemia di Xylella in Salento (Internazionale)

 

Narra il mito che quando Poseidone e Atena si sfidarono per il dominio sull’Attica, il primo percosse il terreno con il suo tridente e fece sgorgare dell’acqua salata, la dea invece scelse di piantare un ulivo. Quel giorno si decise a furor di popolo non solo che il nome della città destinata a sorgere in quel luogo sarebbe stato Atene – non Poseidonia e nemmeno Poseidonopoli – ma si strinse anche e soprattutto il legame tra gli antichi greci e la pianta dell’ulivo, con le sue molteplici virtù e la sua nodosa maestosità.

Nella Bibbia la fine del diluvio è annunciata dal ritorno della colomba che porta un ramo di ulivo, nell’antica Roma a capodanno i giovani bussavano alle porte dei vicini per offrire in dono rami di, indovinate un po’ di cosa, esatto, di ulivo. Dal canto mio, uno dei miei primi ricordi d’infanzia è la scena in cui mio nonno, con un analogo sebbene indubbiamente più modesto intento simbolico, pone un me di forse tre o quattro anni età, nipote cicciotto frutto di incrocio con le nordiche genti, alla guida di un aratro legato a una mula in mezzo ai suoi ulivi.

La cosa a sorpresa non degenera in incidente agricolo e articolo di cronaca sul Quotidiano di Lecce, ma sopravvivo e ne scaturisce una foto. Da qui, probabilmente, la nitidezza un po’ artefatta del ricordo. Anche se da tempo, per la mia famiglia, gli ulivi hanno smesso di rappresentare un lavoro e sono andati dispersi tra le infinite sorelle di mio padre (riproduzione endemica, ancestrale vizio delle famiglie cattoliche), ne possediamo ancora un centinaio, il che, considerato che in Salento ce ne sono undici milioni, mi rende potenziale ereditiero dello 0,009 per cento del patrimonio olivicolo leccese. Al lordo delle mie, di sorelle.

Oggi queste piante si trovano dentro la cosiddetta zona infetta dal batterio xyllela, la peste degli ulivi arrivata probabilmente su una pianta ornamentale dalla Costa Rica. Ho imparato percorrendo il Salento in lungo e in largo che xylella e quello che ci gira attorno sono questioni molto complesse, ma due punti preliminari vanno chiariti subito: il primo è che per il batterio da quarantena al momento non esiste una cura e non si intravvede nemmeno la possibilità di raggiugerne una a breve termine. Il secondo è che zona infetta non significa che tutti gli alberi siano infetti, ma che la provincia di Lecce è stata definita dalle autorità zona dove non ci si aspetta più di riuscire a eradicare il batterio perché ormai l’infezione è troppo diffusa.

Non è quindi solo con lo spirito del cronista ma anche con quello del nipote che vede minacciate le proprie radici e quello del microproprietario terriero afflitto dalle circostanze avverse, che raggiungo il Salento in auto con mio padre: io per capire cos’è esattamente xylella, quanto è grave la situazione, cosa si può fare, lui per curare i suoi ulivi, per il momento ancora sani, come fa regolarmente da quando tanti anni fa ha lasciato il sud.

Per raggiungerli attraversiamo una Lecce il cui viale dell’Università è stranamente al buio, involontaria anticipazione del clima di lutto che si respira per le strade.

Un lutto in larga parte inespresso, strisciante, nascosto sotto la narrazione dominante sui mass media, classici, online e social, che è quella del complotto. Su facebook riscuotono like, la nuova unità di misura della verità, a migliaia, gli appelli di guaritori, dell’insospettabile agronoma Sabina Guzzanti, del noto scienziato in forza ai Sud Sound System Nandu Popu, dei comitati più disparati che si diffondono sul territorio al diffondersi della malattia, e di fantomatici untori, dai più classici a quelli che esprimono un maggior grado di delirio, a sentire l’internet è tutta colpa della Monsanto, degli alieni, dei baresi, delle catene inglesi di alberghi o, come ha sostenuto un sito cattolico, di un dio che prende una deriva da antico testamento e si appresta a punire il suo popolo per le sue manchevolezze morali, o chissà, viene il sospetto, per aver votato un presidente di regione omossessuale.

Più grave ancora dell’immaginifica caccia all’untore è la negazione della malattia, perché agevola la diffusione dell’epidemia. Una parte importante del Salento oggi è paragonabile a un malato quasi terminale, che invece di percorrere la strettissima e complicata via per combattere la diffusione del morbo, strada resa ancora più angusta da uno stato che non mette sul tavolo i soldi necessari, si rivolge a maghi e sciamani, come da peggiore tradizione italica.
Se lutto c’è, qui siamo ancora largamente nella fase di negazione, un rifiuto figlio di pregiudizi antichi veicolati con i mezzi digitali del nostro tempo. Il risultato è un terreno paludoso in cui le istituzioni preposte a gestire l’emergenza annaspano visibilmente.

L’unica fragile barriera, frutto di lunghe trattative e compromessi, che le istituzioni hanno provato a porre al diffondersi dell’epidemia è stato il piano del commissario Silletti, reso pubblico proprio durante i giorni del mio viaggio in Salento, e che oggi, a poche settimane di distanza, mentre sistemo le ultime righe di questo reportage, è bloccato dal tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio. Il pronunciamento arriva poco dopo una nuova decisione in sede europea, proprio alla vigilia dell’entrata nella seconda, fondamentale, parte delle operazioni fitosanitarie. Per capire cosa significhi tutto questo è necessario tornare a quei giorni in cui il piano era appena stato approvato, e io mi aggiravo tra gli ulivi salentini. Continua a leggere su Internazionale