Senza categoria | Daniele Rielli

Senza categoria

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La colpa è degli altri

Il fallimento di questa classe dirigente improvvisata è l’ultimo atto di una politica italiana che ha ipotecato il futuro per comprare consenso e tentare così di nascondere la gravità della situazione.

Ormai è evidente: il grande assente dal dibattito italiano sul Coronavirus è la questione del debito pubblico. Eppure, se nell’affrontare l’epidemia non ci possiamo permettere il relativo agio di Paesi come la Germania e andiamo invece con il cappello in mano a chiedere soldi ad altri Stati, è proprio per via del nostro debito.

Se all’inizio di questa emergenza l’Italia aveva meno posti in terapia intensiva per abitante rispetto ad altri paesi europei è perché per anni i soldi destinati a questo genere di investimento e alla crescita del Paese sono stati invece spesi (senza alcuna misura) per comprare consenso politico, alimentare clientele, tenere in vita artificialmente aziende decotte e finanziare una macchina burocratica che sembra passare la maggior parte del tempo a impedire agli italiani di lavorare.

Se ora si offrono prestiti – che non si capisce come dovrebbero essere ripagati nel contesto di crisi economica radicale che ci aspetta – o si discute di piccoli aiuti a fondo perduto  – in percentuali del tutto  insufficienti – per ristoratori, operatori del turismo e aziende colpite da Covid, è perché per decenni abbiamo buttato via i soldi che sarebbero serviti ad affrontare situazioni di emergenza come questa e a finanziare quegli investimenti magari in perdita nell’immediato ma utili alla salute del sistema sul lungo periodo, voci di spesa come sanità, istruzione, ricerca. Complice anche un contesto mediatico che – nel bisogno di vendere minuti di pubblicità al prezzo più alto – premia chi la spara più grossa, chi è più retorico, roboante e savonarolesco, la classe politica italiana degli ultimi decenni è stata contraddistinta da una caratteristica trasversale: una pressoché totale mancanza di responsabilità intergenerazionale.

Una quantità sostenibile di debito può avere senso se utilizzata per finanziare la crescita di un Paese, ma negli anni la strategia di base della politica italiana è stata quella di comprare consenso nel presente scaricando i costi sul futuro, in genere ammantando questa ruberia con grandi dichiarazioni di principi. In pratica quello che è stato fatto è un viaggio nel tempo per prelevare dai conti in banca di figli, nipoti e pronipoti, che tanto non essendo ancora nati non possono protestare. Che in Italia il tasso di natalità sia basso tutto sommato è una delle poche cose perfettamente sensate. Questo proprio mentre siamo oggetto delle mire espansionistiche di una dittatura – quella cinese – che per definizione ragiona sul lungo periodo. Il piccolo cabotaggio dell’attuale classe politica italiana rispetto all’enormità delle minacce che ci circondano è sotto gli occhi di tutti e ci rende terra di conquista delle più agevoli.

Il cambiamento che auspicavo nel mio pezzo all’inizio dell’emergenza era esattamente questo: un bagno di realtà sulle condizioni della società italiana e sulla tendenza suicida a farla guidare da persone del tutto inadatte, nel senso proprio di scarsamente competenti e inadeguate all’elevatissima complessità del compito che le aspetta.

Quello che invece abbiamo avuto è stata la grande caccia al Paese cattivo del nord che non vuole cacciare i soldi – domanda, noi cosa faremmo al posto loro? – e l’attacco in stile dittatura morbida contro chiunque sollevasse dubbi sul governo e sul suo operato. Si va dal tipico “E allora Salvini?”, riedizione contemporanea dell’ormai tragicamente famoso “E allora il Pd?” ai grotteschi appelli su Il Manifesto (Il Manifesto!) contro ogni dissenso con la cabina di regia.

Insomma, pluralismo e democrazia rimangono sempre concetti largamente alieni a quella parte dell’opinione pubblica che pare incapace di ragionare se non in termini di clan, famiglia, fazione. Per queste menti naturalmente tribali il merito delle questioni appare un noumeno irraggiungibile, una variabile in fondo del tutto irrilevante quando invece è l’unica cosa che conta ed è quello su cui si dovrebbe concentrare la dialettica delle parti politiche. L’Italia, al contrario, pare bloccata in un eterno o con me o contro di me.

Una delle differenze con la Germania ad esempio è che quando i comitati scientifici parlano alla Merkel, la Merkel, con tutti i suoi difetti, capisce quello che le stanno dicendo e dà tutta l’impressione di ragionare in maniera analitica. La preoccupazione numero uno di Conte sin dall’inizio è invece parsa essere quella di tranquillizzare, mediare, lanciare il sasso e poi nascondere la mano, vedere come si sviluppavano le cose, e in ogni caso comunque mai trattare gli italiani come degli adulti. Insomma nessuna linea chiara se non quella di agire come un vero uomo dei palazzi romani del potere[1], contesto nel quale infatti Conte si è formato: la relazione prima della competenza, la mediazione prima della decisione, la convenienza politica prima della realtà dei fatti, la cosmesi prima della presa di coscienza della gravità della situazione.

Con un atteggiamento del genere non si va lontano in generale, durante una crisi poi i risultati possono essere disastrosi, come infatti è regolarmente accaduto.

La reazione della politica di fronte all’inasprirsi della crisi è stata un’ulteriore sforzo nell’alterare la realtà fino a farci assistere a scene francamente surreali e da italietta come i momenti in cui Conte – durante le sue dirette Facebook – ha spiegato al popolo quanto l’azione del nostro paese contro il Covid fosse tenuta in massima considerazione nel resto del mondo. Come no, con un numero di morti che in quel momento era il secondo più alto del pianeta (ora è il terzo) tutti guardavano al modello Italia.

La vera cifra della considerazione di cui gode nel mondo questa classe dirigente italiana è nel ritardo con cui tutti gli altri Paesi europei hanno adottato misure di contenimento: nessuno ci ha preso sul serio. Ma facciamo finta per un momento che le cose stiano diversamente, che davvero, cioè, l’azione di governo italiana fosse ben considerata dagli altri Paesi, quanta sudditanza psicologica, quanta dichiarazione d’inferiorità contiene un’affermazione del genere? Chi fa i compiti a casa, chi si comporta seriamente, chi non ruba il futuro alle proprie generazioni, chi non reagisce istericamente alle domande dei giornalisti non ha bisogno di sentirsi dire dagli altri che sta andando bene, lo sa già.

Al contrario chi è nella confusione più totale, perché non ha categorie solide per interpretare la complessità e l’estrema variabilità del mondo agisce alla cieca e poi, di fronte al proprio fallimento, evoca apprezzamenti altrui. Insomma prova a nascondersi dietro i pezzi di carta, altro atteggiamento disfunzionale tipico dei sistemi burocratici in aperta decadenza. Si compie cioè il passaggio di responsabilità personale al documento che certifica che là fuori sarà pure tutto in fiamme, ma le carte sono in regola. Lo stesso riflesso pavloviano che porta Conte a dire che all’estero ci apprezzano moltissimo dopo che a due mesi e mezzo dall’inizio dell’emergenza ancora non si fanno tamponi a sufficienza, non è in uso alcuna tecnologia di tracciamento e non sono ancora disponibili in numero sufficiente mascherine e altre protezioni.

Il problema per il governo è che poi la realtà attorno a noi permane, tutti ne facciamo parte e la subiamo. Quello che succede, ad esempio, è che ristoratori e commercianti debbano riaprire – nonostante condizioni sanitarie precarie e (probabilmente) pochissimi clienti ad attenderli – perché lo Stato non ha i fondi per aiutarli e nello stesso momento si vogliono buttare ALTRI 3 MILIARDI per Alitalia, gli ennesimi. Il trucco comunicativo insomma è di corto respiro perché la realtà è fin troppo severa ed è sotto gli occhi di tutti. Un’Italia il cui lo sforzo maggiore della classe dirigente sembra quello di negare l’evidenza non ha futuro.

L’aspetto più terribile di questa situazione è che non sembra esserci nell’orizzonte politico alcun soggetto in grado di intestarsi a buon diritto i concetti di responsabilità e competenza e aggregare attorno a essi un consenso sufficiente a governare il Paese.

Qui il discorso è ampio, la risposta semplicistica è dire che in fondo agli italiani va bene così. Può darsi, anche se non credo. M’interrogo invece se sarebbe possibile nell’attuale contesto mediatico l’emersione di un politico che predichi responsabilità sui conti, visione di lungo periodo, affronti i problemi in maniera analitica e prima ancora di legiferare s’interessi dei meccanismi che regolano la quotidianità dei cittadini invece che limitarsi a fare sparate demagogiche e poi raffazzonare dei provvedimenti che aumentano solo l’entropia legislativa italiana. Mi sembra molto difficile. In maniere diverse i media generalisti da un lato e i social network dall’altro sono entrambi canali comunicativi che premiano l’audience e l’engagement – è così che fatturano pubblicità – e quindi campano di sensazionalismo, di retorica a buon mercato o di quotidiano sacrificio di un capro espiatorio.

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(Esempio di chiarezza legislativa italiana)

Per inciso il sacrificio del capro è l’esatto contrario della responsabilità, perché serve ad allontanare i responsabili dall’azione della giustizia, sacrificando al loro posto qualcuno che non c’entra nulla. È una sorta di meccanismo omeostatico con cui si bilanciano le società primordiali e che si cerca – sempre con un certo affanno, ma l’uomo è tutt’altro che perfetto – di superare attraverso lo stato di diritto e il governo delle leggi. La riemersione del meccanismo capro e con esso dell’impossibilità di individuare le vere responsabilità, segnala sempre l’avanzato stato di decadenza di una società, il ritorno, cioè, alle sue forme primitive, alla guerra di tutti contro tutti.

Le esigenze sensazionalistiche dei media contemporanei – afflitti da una radicale crisi del modello di business –  sono tuttavia una condizione strutturale comune a tutte le democrazie occidentali avanzate, che pur in affanno non sembrano, almeno nella maggior parte dei casi, trovarsi in situazioni drammatiche quanto quella italiana.

È quindi nella specifica declinazione nazionale – la maniera cioè con cui questa situazione tecnologica-industriale dell’informazione impatta su una specifica cultura – che va ricercata una parte delle cause della nostra situazione.

In sostanza l’unione fra una cultura retorica e idealistica come quella italiana mal si sposa con dei mezzi di comunicazione che hanno un’uguale ritrosia nei confronti dei fatti, dei dati, dei numeri e, potremmo spingerci dire, del semplice argomentare logico.

Come uscirne?

[1] Un interessante ritratto di questo mondo scritto da un insider è contenuto in  “Io sono il potere”, Feltrinelli, 2020

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“LASCIA STARE LA GALLINA” Rassegna stampa

doner By Roberto Seclì 1(Photo by Roberto Seclì)

RECENSIONE SU STYLE-CORRIERE DELLA SERA di Severino Colombo

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Recensione sul “Nuovo quotidiano di Puglia” di Teo Pepe

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IO DONNA ( corriere della sera)

Lascia stare la gallina di Daniele Rielli

di Francesca Cingoli

Lascia stare la gallina

Lascia stare la gallina è un racconto a più voci che non dà tregua. Protagonista è la terra di Salento, piena di luce ma anche di tanta ombra: è l’ombra minacciosa della delinquenza, fatta di contrabbandieri, piccoli spacciatori, poliziotti corrotti, faccendieri, prostitute.

Le voci narranti, da punti di osservazione diversi, si fondono in un racconto di minaccia incombente: l’ex poliziotto, che gestisce con sinistra disinvoltura una pletora di attività e aspira alla massoneria, il suo socio, diviso tra ristorazione e prostituzione, lo spacciatore un po’ fricchettone, molto sballato ma sempre attento, il giornalista idealista e marxista, che vorrebbe cambiare il mondo, la sua fidanzata, che gioca una doppia partita.

Tutto parte da un assassinio in campeggio, ragazzi che dal nord arrivano in Salento per vivere la libertà del mare: canne, sesso in spiaggia, dancehall e musica rap. Una selva di studentelli, deejay e punkabbestia, terreno multicolore di divertimento che ingolosisce la piccola grande criminalità locale. Si parte da questo, ma i giochi si fanno negli studi eleganti di avvocati e politici, sugli yacht, e nelle ville di quelli che contano. Perché sono l’ambizione e il potere le forze che muovono i fili della trama, fitta ma solo in apparenza complicata.

Un linguaggio brillante, che elettrizza, inchioda alla lettura. Non è tanto l’intrigo, il filo del giallo, a non consentire al lettore di alzare gli occhi dalle pagine, quanto la scrittura, serrata, ironica in maniera sorprendente, tagliente, che azzarda anche il dialetto e non sbaglia. Un libro da leggere, oltre 600 pagine che scorrono vivaci, spietate, brillanti.

Recensione di Gianni Santoro su Repubblica

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INTERVISTA AL NUOVO QUOTIDIANO DI PUGLIA  di Valeria Blanco

Quando tutti osannavano il Salento dei beach party, i suoi reportage ne mettevano a nudo, con sarcasmo, i meccanismi perversi. E quando il Movimento 5 Stelle raccoglieva il 25% dei voti, un’analisi sul suo blog – che poi gli è valsa il Macchianera italian award 2013 come miglior articolo dell’anno – illustrava i cinque buoni motivi per non votare Grillo. Il fatto che allora fosse “solo” un blogger, nascosto dietro lo pseudonimo di Quit the doner (Basta con i kebab, ma questa è un’altra storia), non cambia la voglia di Daniele Rielli di offrire uno sguardo sorprendentemente inedito sulla realtà.

Il caso e le origini leccesi vogliono che il romanzo sia ambientato nel Salento, metafora della provincia italiana. Inutile dire che il quadro non è quello del sole, del mare e del vento a cui il marketing territoriale ci ha abituato. Si tratta di un romanzo corale e complesso, con un massiccio uso del dialetto e una sottotrama noir. E, a guardare in controluce, dietro la storia dell’arrampicatore sociale s’intravede il tramonto di una società che, troppo concentrata a difendere i suoi privilegi, non si accorge che sta per estinguersi, superata e travolta dal mondo. Ed è proprio da qui che parte Rielli per raccontare “Lascia stare la gallina”. Continua a leggere

 

INTERVISTA AL “CORRIERE DEL MEZZOGIORNO” di Michele De Feudis

 

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Intervista a “La Gazzetta del Mezzogiorno” di Fabio Casilli

 

 

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INTERVISTA SU RIDERS

di Lorenzo Monfredi

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“Hotel immagine” di Simone Donati e un po’ anche mio

 

I nomi collettivi servono a far confusione. “Popolo, pubblico… “Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri

E. Flaiano

Qualche tempo fa ricevetti un email di un fotografo che mi chiedeva di scrivere postfazione e didascalie per un libro di foto sull’Italia. Si chiamava Simone Donati e lavorava per Der Spiegel Le Monde, Newsweek , Internazionale e l’Espresso e soprattutto era molto bravo, per cui gli dissi di sì.

Mercoledì 23  alle ore 21 io e Simone saremo alla Fabbrica del vapore a Milano a presentare quello che ne è venuto fuori.

Il lavoro di Simone per questa raccolta ruota attorno ad alcuni luoghi d’Italia dove l’immagine si fonde con la fede, la massa con l’identità il tricolore con una serie di cose di cui pubblicamente tendiamo a vergognarci ma che poi, per dire, ubriacandoci a cena con dei tedeschi finiremmo probabilmente per difendere, almeno un po’ o almeno alcune.

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(questa ad esempio no)

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Dicono di QUITALY

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Una splendida capacità di vedere le cose e una scrittura così brillante da trasformare più o meno tutte le mostruosità in ritratti acuti e divertenti

Il Sole 24 ore

Il libro mostra il talento di questo immersive journalist dalla scrittura veloce e le idee chiare

Internazionale

Una voce brillante e originale che coglie alla perfezione lo spirito dei tempi

La Repubblica

Si è fatto conoscere grazie a inchieste insolite e irriverenti per un eccezionale senso dell’humour, per l’acutezza dello sguardo, per la felicità della scrittura

Goffredo Fofi su Lo Straniero

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Reportage fra l’ironico e il narrativo sul modello del giornalismo americano o forse del libello settecentesco alla Candide

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Un fenomeno in rete racconta un paese narcisista ed eccessivo

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