Daniele Rielli | Daniele Rielli – IL FUOCO INVISIBILE è in libreria | Pagina 2
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Dentro l’odio – Intervista

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Questa intervista è tratta da un più ampio approfondimento

di Claudia Consoli e Antonella Sbriccoli pubblicato sul sito di Mondadori

Cominciamo dal titolo per inquadrare il tuo monumentale romanzo. Quali sono secondo te le principali forme di odio del nostro tempo?

Nella nostra epoca sono finite le grandi narrazioni, le risposte univoche, le persone hanno la libertà e il peso (le due cose vanno sempre assieme) di cercare il proprio personale senso della vita. Al tempo stesso la società occidentale tende a eliminare dalla sfera della consapevolezza il dramma, la morte, il sacrificio e sembra avere un solo mandato imperativo: essere felici. Un’esortazione che arriva senza il libretto d’istruzioni, per così dire, ed è un vero lavoro dopo il lavoro, fenomeni come il turismo di massa, il ritorno del pensiero magico, l’individualismo spinto fino a una dimensione patologica sono solo alcune delle risposte diverse che vengono date a questo impegnativo – e storicamente nuovo – mandato culturale.

Questo quadro culturale si fonde con la rivoluzione digitale: internet, e in particolar modo i social network, hanno creato un nuovo piano orizzontale della comunicazione, dove chiunque può esprimersi pressoché liberamente e raggiungere potenzialmente grandi pubblici. In sostanza mezzi di comunicazione universali e nessuna gerarchia del discorso, anzi, una progressiva disgregazione del logos a favore di forme più immediate di comunicazione. Il risultato è la tensione che vediamo online, la tribalizzazione della società in bolle e clan che non comunicano fra di loro, si limitano ad odiarsi per partito preso, anzi è proprio l’automatismo nella direzione del loro odio a definire i confini del gruppo. L’esistenza di un pluralismo si dà solo all’interno di un quadro di regole condivise da tutti, regole che oggi sono sotto l’attacco del potere primordiale dei clan, la cellula primitiva della società umana che si ripresenta nella realtà digitale. In parte si tratta anche di un’illusione ottica dovuta alla pervasività dei mezzi di comunicazione digitale – in grado di illuminare tutto e moltiplicare all’infinito ogni segnale – perché complessivamente la nostra è una società dove la violenza fisica diminuisce, aumenta però – quasi esponenzialmente – quella verbale e simbolica, un avvitamento in cui estremisti e guerrieri del politically correct non fanno che rinforzarsi a vicenda. Non è detto che a un certo punto tutta questa energia che è nell’aria non si scarichi a terra.

Odio esplora a fondo alcuni temi chiave della contemporaneità, due fra tutti il modo con cui la tecnologia viene piegata ad ascoltare e misurare la vita intima degli esseri umani, e il commercio sfrenato dei dati, petrolio della rete.  Quanto credi che le persone siano davvero consapevoli di questi fenomeni? E cosa vorresti dire loro con il tuo romanzo?

 “Odio” è la biografia immaginaria, ma verosimile, di un giovane uomo con una storia da errore giudiziario alle spalle che si costruisce un posto di spicco – dopo aver iniziato la sua età adulta in tutt’altra maniera – in uno dei pochissimi settori che offrono grandi opportunità alle persone della sua generazione: il commercio di dati personali. Il libro ha molti strati, quindi il percorso professionale è solo una parte di una vicenda umana molto più complessa e articolata, ma la vera natura del suo lavoro, le sue potenzialità, sono all’inizio oscure anche allo stesso protagonista e questo dà la possibilità ai lettori di scoprirle assieme a lui. Non credo ci sia una consapevolezza diffusa su questi temi, forse dal punto di vista dei dati oggi viviamo in un periodo per certi aspetti simile a quello in cui non esisteva alcuna norma antinquinamento perché nessuno si poneva neppure il problema. In questo caso però non è detto sia possibile tornare indietro o anche solo creare delle norme efficaci: i dispositivi e le piattaforme che sorvegliano ogni istante della nostra vita sono ormai troppo pervasivi, ci servono a organizzare la vita, a lavorare, a essere raggiungibili, a stare con gli altri e ci danno in cambio importanti ricompense neurologiche in grado di generare dipendenza. Rinunciarvi del tutto in questo momento storico significherebbe condannarsi all’eremitismo, anche potendoselo permettere non è detto che sia una scelta auspicabile, in ogni caso è un prezzo enorme da pagare, il che non fa altro che evidenziare il potere smisurato dell’industria digitale.

Nel libro ci racconti che la più antica delle tecnologie umane è il capro espiatorio. Quali sembianze prende nel tuo libro e nella società che descrivi – così attuale e distopica allo stesso tempo?

Nella crisi del logos in occidente di cui parlavo prima, c’è anche la crisi di tutto l’apparato deputato a creare senso all’interno di una società: c’è scarsissima fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica, un forte declino della diffusione di religioni e ideologie unificanti. Tutto questo è accompagnato dall’emergere di una concezione post-modernista della verità secondo la quale ogni gerarchia interna alla società è il frutto esclusivo di una lotta amorale per il potere.

Si può vedere questa tendenza in azione a molti livelli, dalle università anglosassoni dove le persone non sono più considerate come individui dotati di diritti inalienabili e uguali di fronte alla legge ma come membri di questa o quella maggioranza/minoranza, gruppi che li definiscono in toto, oppure in quei movimenti populisti che denunciavano (almeno finché non sono andati loro al potere) la corruzione costitutiva di ogni politica, o, a un livello ancora più immediato, si ritrova in quei genitori che insegnano ai loro bambini che non ci sono regole ma solo la capacità di farsi rispettare, a qualsiasi costo.

Sono solo tre esempi della stessa disgregazione di un senso condiviso, un mutamento filosofico su cui si è innestata, a fare da moltiplicatore, la rivoluzione digitale che ha reso possibile il piano orizzontale del discorso di cui parlavo prima. A questo punto ci troviamo in una situazione che ricorda per alcuni aspetti – non tutti, è una tendenza, non ancora una realtà compiuta – lo stato pre-civile di guerra di tutti contro tutti, una situazione in cui manca un principio unificante.

Nell’antichità l’uomo ha sempre risolto il problema di questa tensione mimetica fra individui diversi (tutti vogliamo le stesse cose che vogliono gli altri, ma le risorse sono limitate) attraverso il principio del capro espiatorio, una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Nel tempo la vittima viene santificata e diventa una divinità, fino a quando non si perde la memoria del sacrificio e rimane solo un nuovo dio, il ricordo della violenza collettiva è cancellato. Questa è la lettura del meccanismo fondativo del capro espiatorio che faceva l’antropologo francese René Girard: De Sanctis la sposa in toto dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale.

Come autore mi interrogavo da molto tempo sulla spietatezza che mostriamo sui social, sulla tendenza che abbiamo più o meno tutti ad accanirci su persone di cui in fondo non sappiamo niente, se non uno scampolo di informazione apparentemente controverso. Quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard (ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle sue tesi nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani), ho capito di essere sulla buona strada.

Orgoglio, angoscia, tensioni irrisolte, ambizione: Marco De Sanctis, il protagonista del tuo romanzo, è talmente complesso da apparire inafferrabile. È colui che nessuno conosce ma che ci conosce tutti. Com’è nato questo personaggio? E quali sono le cose che lui odia di più?

 Marco è un personaggio articolato e soprattutto in divenire, come ogni personaggio romanzesco che si rispetti il suo punto di partenza è molto distante da quello di arrivo e anche dalle posizioni che occupa nelle varie fasi della storia.

La sua caratteristica fondamentale credo sia la voglia di applicare la propria intelligenza al mondo, anche se questo significa per lui mettersi contro tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento e contro il suo gruppo di appartenenza. Non è un personaggio che fugge dal suo tempo, un topos molto praticato nella letteratura italiana contemporanea, bensì una persona che prova a dare una chance alla sua epoca, a entrarci dentro e poi accettare le conseguenze della sua scelta. Il dispiegarsi inesorabile di queste conseguenze è il romanzo.

Per quanto riguarda quello che odia, direi le persone incapaci di mettere in discussione le proprie credenze e, ancora di più, quelle che parlano continuamente di ideali astratti e nobilissimi e poi nella pratica si comportano come dei capi tribù.

Da questo punto di vista De Sanctis è di un’onesta intellettuale che qualcuno potrebbe trovare anche disturbante, perché in genere tutti ammantiamo le nostre vite di storie e storielle che ci aiutano ad edulcorare la dura realtà delle cose, lui invece sembra essere costitutivamente incapace di questo movimento cosmetico. Lui stesso è quindi la prima vittima di questa intransigente lucidità perché la vita di uomo fuori dall’atto di raccontarsi storie è davvero molto dura. La sua teoria del capro espiatorio va letta proprio in questo senso: non è una teoria scientifica sulla realtà, ma una grande narrazione che fornisce a Marco degli appigli operativi, una mappa per un mondo che ne è privo.

Le mappe che la letteratura può ancora ambire a costruire sono esclusivamente mappe biografiche, esempi di esseri umani che qui e ora si confrontano con il loro tempo. La presa di un senso superiore, assoluto, universale, è ormai destituita di plausibilità se non come capacità di sentire il respiro del tempo e interrogarsi sugli obblighi di una biologia forgiata in milioni di anni di evoluzione, proprio là dove tutto sembra futuristico riemergono per questo istinti antichi: sono parte indelebile di noi. L’esergo al romanzo, una frase proprio di Girard, è chiaro a questo riguardo: “L’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura”. La tensione qui non è solo nei confronti del post modernismo relativista in cui si è formato intellettualmente il protagonista del romanzo e che diventa sempre più opprimente in Occidente attraverso il politically correct, ma anche verso il Mondo Nuovo in cui entra: quello della tecnologia, un ambiente che coltiva, in modo neppure tanto nascosto, l’idea di costruire un uomo radicalmente nuovo, un tentativo già provato molte volte nella storia della specie, sempre con esiti disastrosi. Questa volta però è un’operazione con qualche chance in più di riuscire perché ha dalla sua uno strumento potentissimo: la scienza. La biografia di De Sanctis – ovvero Odio – è sospesa precisamente fra queste tensioni, è il tentativo di una mappa personale: individuale, umana perché talvolta contraddittoria, in ultima analisi letteraria.

Anche la politica fa la sua comparsa tra le mille pieghe di questa storia. A volte è colei che manipola, altre viene manipolata. 
Esiste per te nel nostro futuro la speranza di coniugare politica e tecnologia in un modo sano o la tecnologia si è ormai irrimediabilmente trasformata nella principale arma di controllo politico?

La politica, come tutto il resto, si uniforma alle esigenze delle piattaforme sociali, se vuoi arrivare a un pubblico, essere premiato dall’algoritmo, devi conformarti alle loro esigenze che sono quelle di sfruttare gli istinti umani per tenere le persone più tempo possibile sul sito mentre gli viene somministrata della pubblicità. Questo significa semplificare e giocarsi alcune “monete” che in quell’ecosistema informativo funzionano meglio di altre, una di queste è sicuramente l’odio, l’altra è il suo apparente contrario, ovvero il moralismo, che poi è l’odio ricoperto da una presunta superiorità etica. Complessivamente è un sistema di incentivi che in politica finisce per premiare i cialtroni, a destra come sinistra. Oggi le parti politiche si scontrano con toni sempre più accesi, ma chi fornisce la matrice di questa nuova politica sono sempre le piattaforme. O obbedisci o non esisti e quindi non prendi voti. Lo stesso principio si può applicare a molti altri settori professionali, ma per quanto riguarda la politica ci stiamo giocando la democrazia occidentale come la conoscevamo per massimizzare i ricavi pubblicitari delle piattaforme. Questo, per me, è il principale tema politico della nostra epoca, il problema costitutivo, diciamo.

Nel libro Marco De Sanctis fa esattamente questo movimento, dopo aver lavorato per un po’ per la politica si rende conto che il vero potere oggi sta altrove, allarga lo sguardo dal dipinto alla cornice e si rende conto di quanto quest’ultima sia importante nel determinare il contenuto del quadro. Nel momento in cui il medium è diventato universale e si trova nelle tasche di chiunque, l’affermazione di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” ha assunto un grado di assolutezza sconosciuto nell’era delle emittenti radio televisive e della stampa.

Sentimenti e sessualità s’intrecciano lungo i salti temporali del romanzo e diventano a loro volta strumenti per esercitare il potere sugli altri. Esiste un esempio di amore “puro” all’interno di Odio? E, più in generale, può esistere secondo te amore slegato dalla dimensione di controllo? 

 L’amore è il principio unificante per eccellenza, è la forza di attrazione nascosta nella biologia, è il principio generatore posto al cuore della trama profonda della vita, è l’unica cosa a cui è possibile aggrapparsi in tempi di temi di Kaos, in particolar modo in un universo privato di dio l’amore rimane l’unico principio universale. Quanto al controllo, un personaggio ossessionato dal controllo in questo campo era il protagonista di Lascia stare la gallina, ma in Odio controllo e amore non sono temi che si incontrano, c’è questo amore autentico e profondo per una donna di nome Federica e una serie di incontri meramente strumentali, che giustamente De Sanctis definisce “incontri fra egoismi opposti”, che sono esattamente la cifra del sesso nel mondo post modernista, se ogni cosa è potere allora anche il sesso sarà una transizione di mercato in cui si organizza un negozio temporaneo fra quantità di potere compatibili, niente di più. In altri termini il trionfo dell’egoismo. La cosa è vista dalla prospettiva di un uomo, perché De Sanctis è un uomo ma potresti cambiare il suo punto di vista con uno femminile e non cambierebbe nulla. È una condizione trasversale. Non è un caso che solo quando De Sanctis abbandona questo genere di visione dell’esistenza che gli è stata insegnata all’università, s’immerge nella vita pratica e si apre alla possibilità che esistano delle trame immutabili nella storia della specie umana, si dischiude davanti a lui la possibilità di un amore autentico.

Decadente, ricoperta di spazzatura e dominata dai gabbiani: Roma è la quinta scenica del tuo romanzo e ci ricorda le atmosfere da fine impero. Come scrittore che rapporto hai con questa città?

Per una persona nata e cresciuta al Nord, seppur con un genitore del profondo Sud, Roma è, soprattutto all’inizio, una creatura molto sfidante, ci sono tutta una serie di cose che in altri posti sono semplicissime che a Roma diventano di una complicazione notevole, il lavoro di vivere diventa un compito estremamente impegnativo, la quantità di cose che non funzionano è talvolta annichilente. Detto questo se si cambia paradigma culturale, si rallenta il ritmo di vita, si assume un atteggiamento più fatalista è un posto dove si può anche arrivare a vivere bene, la bellezza credo che nessuno la metta in discussione e in fondo sono anche contrario all’idea che tutti debbano uniformarsi all’impersonale paradigma efficentista del capitalismo anglosassone – distruggendo millenni di storia culturale in ogni parte del mondo – e quindi se pure apprezzo molto l’organizzazione e il cooperativismo emiliano devo riconoscere che c’è una forma di resistenza allo Zeitgeist anche nel familismo romano, nell’indolenza come regola di vita. In un certo senso in Occidente Roma è la cosa più simile al residuo di un’epoca precedente, anche questo la rende una specie di organismo vivente inafferrabile che sembra davvero in grado di dare l’illusione dell’eternità. È una città che spesso ti fa arrabbiare e poi però è in grado di darti ricompense del tutto inaspettate, è la perenne eccezione alla regola. Questo è anche il motivo per cui Marco De Sanctis la sceglie come sede per la sua azienda, gli piace l’ironia della cosa ma anche quella specifica tonalità umana che di certo non potrebbe più trovare a Londra.

Sei autore di romanzi, testi teatrali, reportage e sceneggiature: come convivono nella tua esperienza le tante forme della scrittura? E ce n’è una che senti più tua?

Il romanzo, senza dubbio. Le altre forme di scrittura che citi possono essere divertenti e appaganti, servono ad acquisire informazioni non solo sulle cose ma anche sugli uomini e a sviluppare le proprie capacità ma il romanzo è la forma più completa dove la mia ricerca si può esprimere più a fondo e senza mediazioni.

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ODIO è su:

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I miti non moriranno mai, la letteratura si vedrà.

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Questo pezzo è apparso su Domani il 24 maggio e fa parte del dibattito Su Contro l’impegno” di Walter Siti (Rizzoli)- Illustrazione di Doriano Strologo. 

“Contro l’impegno” di Walter Siti è un saggio colto e profondo che risulta, non senza una certa ironia, più “necessario” di tanti libri che vengono presentati come cure per questa o quella patologia sociale. Essendo sostanzialmente una raccolta di interventi (editi e inediti) non è un libro particolarmente sistematico ma questo non significa che manchi di una sua coerenza, di un suo spirito unitario. Personalmente indentificherei questa unità non tanto con la polemica contenuta nel titolo – quella contro l’impegno – quanto con quella più ampia contro il paradigma dell’efficacia – immediata, commerciale, di corto respiro – come criterio per giudicare un’opera letteraria. L’efficacia va quindi qui intesa non solo come politica ma anche, e forse soprattutto, come di mercato e neurologica, nel senso cioè dell’essere in grado di fornire rapide ricompense cerebrali al lettore, soprattutto ricompense positive, come quelle che scaturiscono dalla sensazione di appartenenza a un gruppo, dalla consapevolezza di poter vantare una netta superiorità morale sul resto del mondo o dal postulare che la vita sia tutto sommato bella e meritevole di essere vissuta, forse persino potenzialmente giusta. Il distinguo non è banale e nella prima parte del suo libro Siti compie quindi un’analisi delle condizioni di ricezione delle opere nel nostro tempo storico, stigmatizzando l’approccio frettoloso che deriva dal mutato ecosistema informativo – oggi istantaneo, parcellizzato, costitutivamente superficiale ed emotivo – , un panorama in cui i tempi lunghi e le ricompense differite della letteratura appaiono anacronistici, cosi come sembra fuori sincrono la richiesta dei romanzi letterari di essere letti e assimilati nella loro interezza, forse persino macerati nel tempo e rifrequentati durante le diverse fasi di una vita.

Siti non ne parla ma sarebbe stata interessante anche qualche parola sulla letteratura da incipit, libri cioè che diventano oggetti posizionali (da esibire in salotto, da citare in conversazioni) sulla base delle prime pagine, le uniche, sembra, che i più abbiano ormai il tempo di leggere, tanto che una parte importante del mercato editoriale pare ormai essersi orientato oltre che verso i libri brevi – di rapida e indolore lettura – anche alla ricerca di grandi incipit forse più che di grandi libri (si pensi a Ohio di Stephen Markley, romanzo con uno splendido primo capitolo che si rivela poi decisamente fuori scala rispetto al resto del libro). Siti parla in compenso della sparizione dei finali e del declino della “spina dorsale” nelle opere letterarie “alte”, confinate alla frammentazione totale o alla non-selezione dell’oggetto narrativo (come nel ciclo “La mia lotta” di Karl Ove Knausgård).

Il discorso è molto interessante e potenzialmente fecondo ma con una scelta non scontata Siti preferisce dedicarsi ad un’analisi minuziosa di autori che sono più pop che letterari come Saviano, D’Avenia o Catozzella e prendere sul serio i saggi di Michela Murgia. D’altronde è lì che si annida il tentativo contemporaneo, spesso goffo, di creare una nuova mitologia su basi ideologiche, un’operazione che è precisamente il contrario della letteratura, se per letteratura intendiamo, come sembra fare Siti, un’indagine profonda sull’uomo, una ricerca capace di andare oltre gli schieramenti sociali e le appartenenze contingenti, disinteressata, cioè, a marcare continuamente la sua ortodossia politica e orientata piuttosto ad immergersi nella polisemia dei significati, abbracciare la contraddizione insita nello stare al mondo.

Il confronto che Siti imbastisce è dettagliato e civilissimo, come già detto prende sul serio anche cose su cui forse non si farebbe del tutto peccato a coltivare qualche dubbio, questo però rende “Contro l’impegno” un libro piacevole in questo tempo di contrapposizioni frontali e odi efferati. Viene comunque da chiedersi se sia veramente necessario tutto quell’inchiostro per dimostrare che Saviano e la Murgia non fanno letteratura, Saviano per altro non fa mistero di sapere bene come il percorso da lui scelto sia un altro, tanto da scriverlo in uno dei suoi libri. Ci possono essere due risposte a questa domanda, la prima è che il mondo della nuova mitologia – il pop engagé – sembra ormai da qualche anno mangiarsi tutto in campo editoriale, stimolando perciò la necessità di una riflessione. L’industria ha sdoganato il midcult celebrando come grandi opere romanzi dagli stili semplici, dalle strutture basiche e con impianti moralmente lineari (i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e l’immancabile ricomposizione positiva finale), libri che raramente, per non dire mai, aprono a verità profonde e sconvenienti. Un’elevazione di grado di romanzi prima considerati dignitose opere di intrattenimento che ha rianimato il mercato dei libri “da premio”, allineando però sostanzialmente tutto verso il basso a discapito dei romanzi letterari che pure con qualche fatica anche in Italia continuano ad esistere.

Il fenomeno è storico e va di pari passo con la scomparsa della critica (oggi le recensioni le fanno soprattutto gli scrittori dicendosi a vicenda quanto sono bravi, altra cosa che non sfugge a Siti) e con la semplificazione obbligatoria in ogni comparto culturale, a partire dall’istruzione scolastica; una tendenza che risponde alle esigenze di una nuova fase della società: dalla società borghese dei giornali si è passati attraverso quella di massa (mediata dalla tv) e si è ormai stabilmente entrati in quella degli sciami digitali dove l’opinione si fa con telefoni e social network. I cittadini di quest’epoca sono produttori e consumatori di informazioni e coltivano l’illusione di muoversi indipendentemente, osservati però dalla giusta distanza mostrano i meccanismi omeostatici di un unico organismo vivente, un organismo perennemente ascoltato e organizzato dalle multinazionali del digitale. Uso metafore di carattere animale perché in un panorama di questo tipo è difficile continuare a mantenere l’aura di sacralità che l’uomo in quanto uomo ha avuto in altre epoche storiche, i concetti precedenti risultano qui operativamente superati, troppa è la misurabilità, eccessiva la predicibilità dei comportamenti. In un ecosistema di questo tipo, che premia l’identificazione, la tribalità, l’immediatezza, la rissa e il frammento, la letteratura ha poca cittadinanza.

La parte del saggio che viviseziona il pop editoriale italiano mi ha fatto però anche tornare in mente la scena di Troppi Paradisi in cui Siti confessa di non riuscire a sopportare quando Camilleri e Covatta vengono trattati come dei re al Maurizio Costanzo show. Forse sbaglio ma questa mi sembra la seconda motivazione, nascosta e più letteraria, di questa sezione di libro, la constatazione amara di una prospettiva di gloria che per il letterato appare ormai perduta. Ci sono stati tempi che ponevano sfide ben peggiori alla vita di uno scrittore, ad esempio si poteva rischiare di finire in carcere, tuttavia la prospettiva di una gloria transgenerazionale permaneva, oggi invece questa speranza appare declinante. I motivi mi sembrano almeno due: 1. Parafrasando Sciascia si possono scrivere libri per il futuro, ma bisogna vedere se il futuro avrà ancora dei lettori, in particolare se ne avrà di interessati ai libri oggetto di questa riflessione. C’è qualche ragione di dubitarne, ma staremo a vedere. 2. Siamo diventati materialisti e scientisti e della gloria da morti, la gloria cioè di cui non possiamo fare in alcun modo esperienza diretta, ci interessa poco. Ci troviamo, mi sembra, in un vicolo cieco da cui si può uscire solamente con un atto di fede nei confronti del valore della letteratura, considerandola cioè più forte, sul lungo periodo, dell’apparato ideologico-capitalistico che oggi si trova benissimo con il foraggiare il mercato di romanzi banali ma moralmente edificanti, anche se questo significa talvolta fare uso pornografico delle disgrazie altrui.

Ricordo ad esempio ancora con un certo imbarazzo uno spettacolo teatrale a cui assistetti un paio di anni fa assieme a tanti giovani progressisti e volenterosi in un bellissimo chiostro di una città d’arte del Sud: un attore milanese cinquantenne si produsse in un monologo in prima persona sulla storia di un bambino annegato al largo di Lampedusa. Durò un’ora, di cui una decina di minuti dedicati al momento in cui il bambino, perso nei marosi, smetteva infine di respirare. Il risultato fu grottesco, grottesco alla maniera della peggior pornografia (esiste anche una pornografia piuttosto gioiosa) perché con ogni evidenza non c’era quello che Nassim Taleb chiamerebbe skin in the game, la distanza era troppa e non necessariamente perché l’attore era un milanese cinquantenne (come vorrebbero i teorici del politicamente corretto nell’arte) ma perché lo stile scelto preferiva smaccatamente lo scandalismo all’empatia, la denuncia alla dimensione tragica della vicenda, indugiava nel lirismo e nel patetismo di maniera facendo di una persona un feticcio, spersonalizzava cioè un essere umano per consegnare alla platea una moneta da spendere al mercato della politica. Lo stile, come ricorda estesamente Siti, è sostanza, se si ha il tempo, la voglia e la competenza per prenderlo sul serio. Siti dedica a questa deriva pornografica-emotiva uno degli ultimi capitoli del libro, quello incentrato sull’icona pop Barbara D’Urso, una parte del libro dove si constata l’avvicinamento ormai evidente fra tv generalista e letteratura midcult.

Quello di cui Siti non parla è invece il meccanismo di istituzionalizzazione del dissenso, il fatto cioè che la sostanziale compattezza ideologica dell’industria editoriale e culturale non gli impedisca di rappresentarsi sempre come contro. Insomma la differenza la fanno gli insiemi: la tribù dei Perbene dentro la più grande tribù del Popolo Bieco e più o meno questo è quanto, un campionato a squadre chiuse, dove c’è l’Ordine da un lato e il Dissenso dall’altro e i confini del Dissenso sono perfino più rigidi di quelli dell’Ordine. Un assetto di questo genere è capace di riassorbire e marginalizzare ogni mancata ortodossia. È qui, credo, che incominciano un po’ a tremare i polsi e s’intuisce qualcosa di davvero sinistro: mentre un tempo l’artista – e lo scrittore non faceva eccezione – quando decideva di sfidare il corpo costituito della società lo faceva a suo rischio e pericolo, prefigurando talvolta con il suo lavoro l’avvento di una morale futura, oggi una determinata morale ribelle è data per costituita una volta per tutte e si è fatta industria, dunque regola, dunque sistema, e rappresenta un cammino sicuro. Lo svantaggio naturalmente è che di ribelle rimane giusto la parola.

Denunciare la discriminazione degli omosessuali negli anni sessanta aveva un costo pesantissimo sotto ogni punto di vista, oggi si paga ancora nelle periferie ma nel mondo della cultura è al contrario un buon viatico per premi e riconoscimenti. Più in generale l’impegno politico nelle forme previste è una condicio sine qua non per l’appartenenza alla buona società e gli incentivi sui grandi numeri contano, specie in un popolo abituato a fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri e pieno di artisti ribelli pronti a compiacersi del saluto dell’assessore alla cultura. Parliamo in fondo di un ambiente in cui da un anno tutti dicono, considerandola una cosa perfettamente normale, che il prossimo premio Strega andrà a una donna, non a questo o quel libro di una donna ma a una donna in quanto donna. Chissà, forse non andrà così, perché alla fine l’establishment letterario tende a sopravvalutare il proprio potere, non di meno è un dato inquietante. Ora, questo mi sembra un oggetto d’elezione per un possibile lavoro letterario, un settore della società, piccolo ma strategico, dove l’ideologismo ha raggiunto rapidamente vette impensabili soltanto dieci o cinque anni fa. Perché non indagare questo? Perché è scomodo e perché non è cosa da persone per bene. Al tempo stesso però mi sembra un oggetto esattamente letterario, così come sarà letterario tornare a occuparsi di minoranze quando l’ondata di destra che si profila all’orizzonte sommergerà il mondo del politicamente corretto. Il punto è che il lavoro letterario come lo descrive Siti, e su questo non posso che concordare, è necessariamente ingrato, il suo compito non è quello di costruire miti, stabilire regole di convivenza, far progredire l’uomo come collettività, quanto piuttosto permettergli di conoscersi nei suoi aspetti indicibili, nascosti, inaspettati, non necessariamente truci o malvagi, ma di certo avulsi alla logica del gruppo.

Forse diversamente da Siti credo che la letteratura di questo tipo sia sostanzialmente contro natura – coltivo un’idea scientista della natura che forse a lui non piacerebbe – perché le grandi narrazioni che dividono il mondo in buoni e cattivi sono scheletri evolutivi, mappe di significato inevitabili quanto la vista, la capacità di movimento e altri attributi fisici, e per questo motivo, per il loro innatismo cioè, vinceranno sempre. In un sistema che si efficentizza tecnologicamente vinceranno poi ancora di più. Tutti motivi per cui i tentativi di nuove genesi morali, che siano raffinatissime (Nietzsche) o a buon mercato (Murgia), sono con ogni probabilità destinate a fallire, mentre la mitologia non morirà mai, né morirà il tribalismo e tantomeno le storie o i romanzi di impianto lineare – dati per finiti mille volte ma tecnicamente immortali. La letteratura più profonda invece è sempre uno stato di eccezione, e, esattamente come la scienza ma in una direzione diversa, serve a superare per un breve illusorio momento il nostro mandato genetico pur partendo da esso (non disponiamo infatti di altre basi da cui muovere). Quando il movimento riesce si crea un qualcosa di sublime, trascendente e raro ma per definizione anche passeggero. Stupirsi un po’ che in un tempo storico come il nostro questa forma d’arte lenta, faticosa, esistenziale e preziosissima non domini le classifiche è il limite del libro di Siti, il suo pregio, invece, è chiedersi se in futuro un’attività con questi tratti continuerà a sopravvivere. La risposta non mi sembra scontata.

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L’omelia e il buon selvaggio

Come sopravvivere alle infinite introduzioni dei festival culturali

(articolo apparso originariamente su Il Foglio del 26/08/2018)

 

L’estate non sarà più tempo di letture, se non delle chat su Whatsapp e delle didascalie alle foto autocelebrative su Facebook, ma rimane senz’altro tempo di festival, il rito transumante che compie il pachiderma dell’alfabetizzazione per andare a morire nel cimitero dell’evento. A chiunque capiti di prendervi parte, da invitato, da moderatore, da spettatore, da spillatore di birre, da vicino di casa insonne, non è permesso di sfuggire ad una cosa su tutte: l’introduzione infinita. In un mondo ideale del film che andiamo a vedere o del libro di cui sentiremmo dibattere ci basterebbe conoscere il titolo e, forse, ricevere qualche ridottissima informazione biografica sull’autore. Per il resto vorremmo fidarci a scatola chiusa del gusto del direttore artistico o della comune di cervelli che si è spremuta lungamente le meningi durante i mesi invernali per preparare il programma. Altrimenti, si suppone, non essendo noi degli imbecilli, non saremmo lì. Nell’FCI (Festival Culturale Italiano) è invece obbligatoria un’introduzione della durata minima di venti minuti, meglio se quaranta e con punte mitologiche, vagamente fantozziane, di un’ora abbondante. L’introduzione da festival ha una struttura fatta di caposaldi immutabili, primo fra tutti il saluto commosso e riconoscente alle autorità. S’inizia dal Comune –spesso microscopico ma i cui assessori non hanno comunque più quel grado di ingenuità che renderebbe il tutto un po’ meno stucchevole e più leggero – passando poi per la provincia fino alla regione. In genere questi ultimi sono quelli che mettono più soldi, quindi sono un po’ i padroni della baracca perché l’FCI per definizione non può produrre denaro, deve solo bruciarne, altrimenti rischia di perdere il valore culturale. Ho sentito con le mie orecchie in un recente FCI di medie dimensioni una giovane organizzatrice chiedere scusa alla platea subito dopo aver usato l’espressione “mercato del cinema”. Unica eccezione ai ringraziamenti per i contributi pubblici, un’esclusione peraltro significativa, si dà in presenza di fondi europei, un’eventualità in cui Bruxelles non si nomina mai, pare infatti che l’oscura funzionaria polacca che appone le ceralacche sulle vittorie dei bandi non venga mai alle cene dopo le proiezioni e i dibattiti. Esauriti i saluti alle autorità, ai vips in sala e conclusi anche i ringraziamenti incrociati – con applausi doverosi – fra organizzatori, si giunge al nucleo senziente dell’introduzione: il discorso sulla necessità & sui fini. Il sottointeso qui è che raccontare una storia sugli esseri umani e i loro strani comportamenti sia da sola una motivazione un po’ troppo triviale per un’opera che aspiri a trovare posto all’interno di un FCI, e, diciamocelo, sarebbe anche un po’ poco per noi che siamo qui, visto che il PCI (pubblico culturale italiano) cerca sì intrattenimento ma con i punti di rilevanza sociale ben sottolineati e numerati come negli specchietti sinottici a fine capitolo nei sussidiari. Si passa quindi a illustrare come l’opera che seguirà sia di assoluta necessità, una sorta di farmaco sperimentale e prezioso per curare un determinato male del corpo sociale. Fra le patologie più gettonate: disumanità, indifferenza, ignoranza, dominio del neoliberismo. Talvolta si fa più genericamente appello ad intere categorie, quindi giovani disoccupati, esclusi dalla società, afflitti da solitudine, anziani che non hanno diritto allo sconto sui trasporti pubblici. Anche volendo per un momento prendere per buono il dogma dell’artista ingegnere e meccanico sociale la cui opera abbia un solo livello di lettura – quello a favore del miglioramento del welfare – il problema è che la complessità e gli aspetti peculiari della società contemporanea potranno talvolta entrare nelle opere (soprattutto in quelle straniere) ma mai e sotto nessuna circostanza nell’introduzione. Il suo cuore pulsante, l’epicentro retorico, è tarato infatti su di un’immagine della società italiana che viene presa di peso dagli anni sessanta, per cui, ad esempio, se siamo in provincia i giovani “non hanno occasione di vedere cose diverse da quelle che vanno in televisione”, il tutto detto mentre in platea un sedicenne annoiato segue in diretta su YouTube lo stretching di Cristiano Ronaldo in un resort della Grecia occidentale. E tuttavia questo sfasamento cronologico con la realtà fornisce un indizio prezioso all’osservatore laico che s’interroghi, durante la lunga ed estenuante attesa, sulla natura dello spettacolo a cui sta assistendo. Se negli elementi fra di loro apparentemente in contrasto come i propositi rivoluzionari e le pubbliche riverenze alle autorità si ritrovano i tratti tipici e pressoché eterni della borghesia italiana, mano a mano che il discorso procede senza avvicinarsi mai, novello Achille di Zenone, alla fine, un’illuminazione coglie prima o poi il paziente spettatore: sta assistendo ad un’omelia. Tutti quegli anni a denunciare le malefatte della chiesa santa cattolica e apostolica salvo poi tradire, attraverso un’imitazione delle forme, un istinto naturale, quasi biologico, al ritorno ai riti di un’infanzia per bene. E così l’intellettuale da FCI quando si produce nella sua inesauribile omelia introduttiva ritorna inconsciamente alle origini tanto criticate –la messa della domenica a cui lo portavano i genitori –, forme ancora vive della sua socialità perché mai abiurate davvero, essendo l’illuminismo dalle nostre parti roba appunto da schema sinottico che si manda a memoria per non capirlo. L’omelia dell’FCI pare quindi mandare – attraverso la struttura, i gesti e la trascendenza immutabile del rito – il più alberto sordesco dei messaggi: gli italiani so’ tutti uguali. Conclusione un po’ troppo severa nei confronti del Paese, che forse – si sottolinea però l’avverbio – non la merita. L’osservatore ormai sull’orlo del coma indotto dal potente anestetico vocale propone quindi una seconda direzione d’indagine, una domanda utile ad individuare almeno una differenza. Perché tutto questo indulgere, nelle omelie degli FCI, sui popoli lontani, quando nella platea ci sarà pure abbondanza di lini svolazzanti e di colori etnici ma le pelli sono bianche quanto quelle di una riunione del Ku Klux Clan? Ed ecco che emerge il problema più recente di questo sottogenere oratorio: il pubblico di riferimento. Perché vanno bene tutte le categorie di cui sopra ma serve anche una massa a cui rivolgersi, un branco compatto e indistinto di diseredati di buoni sentimenti a cui additare tutti quei mali più specifici e di nicchia. Serve insomma un popolo da dirigere. Il problema è che se parliamo di platee, al di fuori dell’FCI – che per definizione è quasi un guardarsi negli occhi fra addetti ai lavori, un predicare ai convertiti –per questo genere di omelia ormai c’è quasi il deserto. Il vecchio proletariato ha alzato la testa se non socialmente quanto meno nella percezione – fondata o meno non è questo il punto – di sé. Forse deve badare al lavoro, alla famiglia, o ha la timeline Instagram delle colleghe da scrollare e le vacanze a Gallipoli da pianificare per portare a casa un po’ di selfie di qualità su cui campare non dico tutto l’inverno ma almeno fino a Natale. Chissà. Cos’abbia di meglio da fare rimane in fondo un mistero ma appare evidente come non abbia più né voglia né tempo di ascoltare pazientemente i sermoni di chi tratteggia un sole dell’avvenire che non arriva mai se non per chi lo dipinge. Rimangono al novello parroco del progresso le bolle dei lavoratori dei media o di quella che un tempo si sarebbe chiamata l’industria culturale, assieme a dei giornali sempre meno letti. Ma anche qui si rischia di non provare quel tipo di sensazione oceanica che solo la propria voce che crepita da degli altoparlanti su una piazza colma di gente dove le bandiere garriscono in un silenzio assorto, rapito, può garantire. Certo per raggiungere le masse made in Italy ci sarebbero anche i frequentatissimi social network ma lì la battaglia fra messaggi tagliati con l’accetta la vincono inevitabilmente gli altri. Fra ruspe e magliette rosse vincono sempre le ruspe, la piattaforma tecnologia è pensata così, per massimizzare il rogo dei capri espiatori. Ecco quindi un problema di difficile soluzione, pensa il paziente spettatore che nell’attesa della proiezione ormai lambisce i sempre più attraenti confini del sonno REM: dove trovare un popolo da difendere e dirigere con mano gentile ma ferma e che sia al tempo stesso sufficientemente educato da non morderla, quella mano? Un indizio su dove sia diretta la ricerca ce lo dà, fra gli altri, il magistrale articolo su Repubblica (genere contiguo e simbiotico all’omelia da FCI) di Tonia Mastrobuoni a proposito della polemica sul calciatore di origine turca özil che ha chiamato Erdogan “il mio presidente” e in seguito alle proteste ha abbandonato la nazionale tedesca. Commentando il fatto che i turchi tedeschi hanno votato in massa per Erdogan la giornalista scrive: “Non è una schizofrenia di chi gode quotidianamente delle libertà di una democrazia parlamentare funzionante e sceglie nel segreto dell’urna un autocrate liberticida e – in questo caso, davvero – parafascista. E’ (sic) il grido di protesta di una minoranza importante che continua a sentirsi minoranza reietta e riscopre con Erdogan un presunto orgoglio nazionale andato perduto.” .

Così, molto semplicemente e molto univocamente. Tedeschi democratici ma cattivoni, turchi filo fascisti certo, ma per dispetto. Il retore da FCI non conoscerà più con l’esattezza millimetrica di un tempo il volere delle masse autoctone ma con lo stesso grado di unilateralità e di sicumera ora sente di conoscere quello delle masse straniere, che dal canto loro sono sufficientemente lontane dal non sentire il bisogno di rispondere a questa privazione di soggettività con una pernacchia. In discorsi di questo tipo si ritrova tutta la forza spersonalizzante del mito del buon selvaggio, vero e proprio sostituto contemporaneo del proletario portatore di ogni virtù e di nessuna macchia, quindi inumano. Per altro è la perfetta antitesi del cattivo selvaggio, anch’esso altrettanto inautentico, un rovesciamento uguale e contrario della retorica dello straniero inevitabilmente barbaro e stupratore, con l’aggravante che si tratta del fallimento di un’alternativa proprio là dove non si fa altro che parlare di diversità. Le cose naturalmente sono molto più complesse e fortunatamente nessun popolo – tantomeno quello turco – si fa comprimere dentro analisi così sommarie e ideologiche. C’è chi avrà votato Erdogan per questo motivo e chi per tutt’altro, ovviamente, e se proprio esistesse qualcuno in grado di conoscere così nel dettaglio le motivazioni dei voti alle elezioni si tratterebbe probabilmente di Google e degli altri signori dei big data, ma questo, decisamente, non è materiale da FCI. Quello che conta, l’aspetto più prezioso, è che però nessuno si prenderà la briga di rispondere ad affermazioni del genere perché tutto sommato i turchi tedeschi hanno altri problemi, altri interessi, altri dibattiti da seguire. Il che li rende dei buoni selvaggi ideali, perfetti come altri popoli lontani anche per l’inserimento nell’omelia da FCI. A questo punto lo spettatore ormai ronfante è visitato in sogno da un’ulteriore problema, questa volta in prospettiva: il genere retorico dell’omelia si avvantaggia di grandi opposizioni, di confini netti e di orizzonti da tracciare, necessita soprattutto del silenzio raccolto e ossequioso della platea. Si potrebbero quindi presentare delle complicazioni quando in futuro si realizzerà anche in Italia l’integrazione che tutti giustamente auspichiamo e il selvaggio, da idealtipico elemento muto del paesaggio, diventerà un cittadino con diritto di parola e sarà impossibile per l’oratore decidere cosa pensa, lui e i milioni che si suppongono uguali a lui come dei replicanti, sulla base di una rapida annusata dell’aria fuori dalla finestra. “Sento odore di dispetto, in milioni!” non funzionerà granché, allora. Ma stiamo parlando di un tempo molto lontano, diciamo almeno 2-3000 omelie introduttive di distanza (OID). Ora però un po’ di silenzio, il film sta già per iniziare.

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La tribù online

Questo articolo è apparso su Il Foglio il 15.08.2020

“Il Ramo d’oro” di James Frazer contiene, fra le tante, anche le vicende di un’antica tribù africana presso la quale, nel momento stesso in cui veniva nominato, il re fuggiva dal villaggio e doveva venire ricatturato da un gruppo di guerrieri e messo a forza sul trono. La scena ha un che di comico se si considera quanti sforzi sono stati fatti in ogni tempo dagli uomini proprio per salire sui troni, eppure quella fuga dal potere – che Frazer svela poi avere motivazioni piuttosto solide – ha nonostante tutto un che di credibile, di sinistramente sensato: cela l’intuizione di una verità nascosta, come spesso accade con le cose capaci di farci ridere.

Il periodo in cui ho letto per la prima volta questa piccola storia era lo stesso in cui Matteo Renzi aveva da poco perso quel referendum costituzionale che inizialmente doveva essergli era sembrato un goal a porta vuota (proporre agli italiani un taglio del numero dei parlamentari? Quale esito più scontato?) salvo poi diventare un incubo nel momento in cui lui stesso lo aveva trasformato in un test sulla sua persona. Un errore diventato il primo atto di quell’arco declinante che ha mutato il suo personaggio pubblico da uomo della provvidenza a una sorta di villain per antonomasia, quasi compiaciuto del nuovo ruolo marginale e risentito.

Eppure le colpe potrebbero – pensavo – non essere tutte di Renzi. Soprattutto, avendo scritto di lui mi era capitato di osservarlo da distanza ravvicinata e lo avevo visto letteralmente braccato dai suoi sostenitori. Un entusiasmo che sembrava a quel punto il perfetto contraltare dell’odio che era in grado di attirare nella nuova fase crepuscolare della sua carriera. Certo di uomini che promettono molto e finiscono poi schiacciati dal peso delle aspettative disattese è piena la storia della politica – non solo recente – ma mi rimaneva l’impressione che nei cicli sempre più brevi che portano i politici dai vertici all’ ignominia e all’irrilevanza, ci fosse una componente eterna – antica, primordiale – e una che invece era diretta espressione della tecnologia digitale contemporanea.

In poche parole Internet, e in particolare i social network, pur espressione della società della scienza, sono anche degli straordinari amplificatori tribali, ci riportano cioè alle origini della civiltà umana, quando per fondare le nostre comunità sacrificavamo capri espiatori, come ha sostenuto nel suo lavoro l’antropologo francese René Girard. È da questo nucleo di riflessioni che è nato Odio, da questo e dall’aver scoperto che uno dei primi finanziatori privati in Facebook è stato Peter Thiel, allievo proprio di Girard a Stanford e suo seguace convinto, tanto da aver finanziato Imitatio, una fondazione di studi a lui dedicata.

In molte interviste Thiel ha ribadito l’importanza di Girard nella sua formazione e nel libro “Zero to one” ha declinato in chiave aziendalista molte idee del suo maestro. Facebook è un’incarnazione digitale sorprendentemente precisa dei due principi cardine del pensiero di Girard: l’imitazione mimetica e il sacrificio del capro espiatorio. Imitazione mimetica significa – in soldoni – che finiamo sempre per desiderare quello che vogliono le persone che ci circondano, in particolar modo il gruppo dei nostri pari. Come ricostruisce perfettamente Luca Ricolfi ne “La società signorile di massa”, l’élite urbana sogna ad esempio un tipo di lusso studiatamente informale e attento a una costruttissima autenticità – ricerca cioè l’esperienza – la periferia è invece ancora attratta dal possesso materiale e da una ricchezza sfiorata soltanto occasionalmente.

Il punto qui comunque è che non si desidera mai nel vuoto, ma sempre all’interno del proprio contesto sociale, e, soprattutto, che visto che le risorse sono per definizione finite e distribuite in maniera diseguale questo concentrarsi dei desideri sugli stessi obbiettivi genera sempre un certo grado di tensione, di risentimento, di invidia. Nella società primordiale questo tipo di reciprocità negativa sfocia in una sorta di guerra di tutti contro tutti, un piano orizzontale risolto dal sacrificio di un capro espiatorio che pagando per i peccati di tutti permette la pacificazione della società e l’avvento di una gerarchia stabilizzante.

L’attuale ecosistema informativo digitale è orizzontale per definizione dato che tutti, ma proprio tutti, abbiamo in tasca uno smartphone connesso a internet e ricorda molto da vicino proprio lo stato di reciprocità negativa. Al di fuori della rete – nel mondo fisico – permane però intatto l’ordine dettato dalla gerarchia piramidale dall’economia reale. I due piani – quello dell’informazione e quello dell’economia – confliggono perciò in questa sorta di asimmetria fondamentale creando precisamente quella tensione pre-temporalesca che percepiamo ogni giorno, la sensazione cioè che nonostante la società sia ancora in grado di assolvere con una certa efficienza ai suoi compiti fondamentali, una deflagrazione animata da ragioni che appaiono tanto oscure quanto inesorabili ci sembri sempre più imminente.

Cliccare sull’app di Facebook sul mio telefono assomiglia ogni giorno di più all’aprire il portellone di un forno a legna avviato a pieno regime, con la differenza che mentre l’ardere dei tronchi è in grado di generare geometrie imprevedibili, eleganti, ipnotiche, l’odio tribale che brucia su Facebook è quanto di più scontato e meccanico si possa immaginare. Quand’è stata l’ultima volta che avete letto una femminista attaccare l’atteggiamento nei confronti delle donne non del fantomatico maschio bianco occidentale paternalista ma di un estremista islamico? Esatto, mai. Quante volte avete sentito un leghista lamentarsi della minaccia alla sovranità italiana rappresentata non dagli immigrati africani ma del governo cinese? Realisticamente la risposta anche in questo caso è zero. A ognuno secondo la sua bolla, ossessioni, omissioni e contraddizioni incluse, anche se talvolta verrebbe da dire soprattutto omissioni e contraddizioni perché è proprio quando si decide di chiudere gli occhi di fronte a un segnale incoerente che più di tutto si certifica la propria appartenenza al gruppo.

Personalmente abito – abbastanza involontariamente visto che raramente faccio richieste di amicizia, mi limito a rispondere a quelle che ricevo – una bolla digitale composta in larga parte da 30-40enni che fanno, o tentano di fare, professioni creative. Principalmente giornalisti, scrittori, ma non solo. Di questi, una minoranza appare effettivamente sovra-educata mentre la maggioranza sembra in possesso giusto di quella manciata di nozioni che vengono ritenute sufficienti a sentirsi intellettualmente superiori nei confronti del resto della popolazione. Complice anche la transizione dell’industria culturale all’era digitale, la stragrande maggioranza della mia bolla rilascia informazioni che la fanno pensare trasversalmente sottoccupata, il più delle volte malpagata, mediamente rancorosa.

In genere appartiene per meriti famigliari alla piccola-media borghesia e affianca a salari incerti rendite sufficienti giusto a una vita di mero galleggiamento, un’esistenza che con l’avanzare dell’età appare sempre meno adatta; vede insomma davanti a sé lo spettro del declassamento sociale ma l’idea di cambiare settore occupazionale non la sfiora neppure perché il posizionamento di immagine gli appare incommensurabilmente più prezioso di quello economico. Tanto è malleabile dal punto di vista salariale tanto è intransigente dal punto di vista ideologico: è largamente ossessionata dalla correttezza politica, monolitica sui più classici assiomi antirazzisti (ogni forma di regolamentazione dell’immigrazione è, per definizione, xenofobia), si schiera sempre e comunque dalla parte delle minoranze. Nulla nella mia bolla sembra capace di rilassare i nervi scossi quanto un post adirato contro Salvini e, ultimamente, la Meloni.

Il meccanismo è talmente automatico che si potrebbe usare uno di quei generatori automatici di titoli che proprio la mia bolla dedica a nemici storici come il giornale Libero. Intendiamoci, so bene quanto può essere rilassante questo genere di sfogo perché vi ho ceduto spesso a mia volta, è, per l’appunto, parte del fascino del capro espiatorio: esternalizzare il male che abbiamo dentro verso qualcuno che potrebbe aver fatto qualcosa per meritarselo almeno un po’. Crepe nella mia personale bolla digitale sono rappresentate da amici d’infanzia e adolescenza, ex compagni di scuola o di basket, parenti, tifosi della curva dell’hockey club Bolzano che mi seguono per via di un documentario che ho girato sulla squadra. Qui la percentuale di gente che se non lavora non mangia sale in maniera significativa e in questo segmento vanno molto più forte gli immigrati visti come problema, le teorie del complotto sul 5g e i cuccioli di tutte le razze animali addomesticate. Più di ogni altra cosa però si assiste alla pubblicazione di scampoli di vita privata, di momenti familiari, di gite e di ferie. Nessuno qui credo abbia mai sentito parlare di Calenda.

L’ossessione di ribattere a ogni affermazione di un leader politico rimane comunque molto più forte nella parte sinistra della bolla, che, per inciso, sembra contenere parecchie persone passano tutta la vita a combattere guerre online. Le possibilità che un giorno, per uno strano allineamento dei pianeti, qualcuno nell’area sinistra della mia bolla trovi non del tutto deprecabile una singola affermazione della Meloni appare anche in questo caso uguale a zero, il che statisticamente è significativo della scarsa onestà intellettuale impiegata nel giudizio perché un paio di volte al giorno anche un orologio rotto segna l’ora giusta. Non ho dubbi che lo stesso valga in altre bolle a me precluse per un’affermazione qualsiasi della Boldrini.

Quello che sto dicendo è che sui social il dialogo è un’illusione, quello che facciamo è: 1. Segnalare le cose bellissime che riempiono la nostra vita (imitazione mimetica) 2. Prendercela con qualcuno a partito preso per sentirci meglio (sacrificio del capro espiatorio). E lo facciamo a partito preso anche quando nel merito potremmo avere dalla nostra qualche ragione, non è questo però che ci muove: quello che ci mette in azione in questo tipo di piattaforma digitale è ribadire l’appartenenza alla nostra tribù, quella dell’Italia che si sente migliore oppure quella dell’Italia che si sente dimenticata. Il meccanismo è tribale, il dibattito non esiste, è una messa in scena.

L’aspetto grottesco delle echo-chamber politiche è esattamente questo: milioni di persone si affannano a esprimere i loro pareri politici ma non fanno altro che farsi la conta dei like a vicenda mentre predicano ai convertiti. Al di fuori di chi è già d’accordo non c’è infatti nessuno ad ascoltare. Una parte del Paese pensa che l’altra viva in una specie di medioevo e l’altra pensa che la prima abbia perso del tutto il contatto con la realtà e sia intossicata dall’ideologia. Le due parti non si parlano, si disprezzano. Ognuna delle due parti deve sfogare su qualche capro espiatorio la tensione che si genera all’interno di quelle camere stagne dove nessuna voce suona bene quanto la propria.

Non vorrei dare però l’impressione di ritenere che le piattaforme abbiano generato in noi qualcosa che prima non c’era: non è così. La tribalità è sempre esistita, ed è sempre stata una forza fondamentale. Forse il motivo per cui parlo in maniera smaliziata della mia bolla è proprio perché mi ci trovo dentro in larga parte involontariamente, sarebbe per me molto più difficile farlo se mi ci riconoscessi in maniera totale e identitaria, sarebbe come l’acqua per il pesce nella nota storiella di Foster Wallace.

Quello però che i social stanno facendo è prendere una delle caratteristiche dell’essere umano e farne l’unico metro – assoluto – dell’esistenza. Attraverso la continua ottimizzazione degli algoritmi hanno creato un ambiente volto a farci spendere più tempo possibile online, in modo che possa venire somministrata la maggior quantità possibile di pubblicità. L’analisi dei dati ha dimostrato nel tempo che il modo migliore di riuscirci era riportarci, per quanto solo virtualmente, al nostro stato pre-civile. In sostanza, l’Occidente si sta imbarbarendo e polarizzando all’interno di camere di autoreferenzialità dove il logos lascia spazio alla tribalizzazione perché in Silicon Valley possano continuare a fatturare.

È questo l’odio che dagli schermi tracima nelle nostre vite in quantità che sembravamo aver dimenticato, un fenomeno molto più ampio e radicale di questo o quel presunto hate speech, è l’aria che ci circonda, è lo spirito del nostro tempo: lo spirito antico della tribù.

 

ODIO è su:

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Il conformismo degli spaventapasseri

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Questo pezzo è stato pubblicato nella newsletter di Domani il 18/2/2020 // (illustrazione di Dario Campana)

Qual è lo stato della libertà d’espressione in occidente? Diciamo che potrebbe stare meglio. Bari Weiss si è appena dimessa dal New York Times, era stata una dei pochissimi giornalisti di testate liberal a seguire i fatti dell’università di Evergreen, quando Bret Weinstein, un biologo evoluzionista con una lunghissima storia di militanza anti razzista, sostenitore di Bernie Sanders e di Occupy Wall Street e nessun legame con Harvey Weinstein, il produttore cinematografico, fu costretto da alcuni studenti ad abbandonare il college per aver espresso un’opinione.

Che opinione?

Un parere contrario al rovesciamento del Day of Absence da giorno in cui gli studenti e i dipendenti delle minoranze non si presentavano in facoltà per sottolineare la loro importanza a giorno in cui i bianchi venivano ufficialmente invitati dalle istituzioni accademiche a non a recarsi al lavoro o a lezione.

In quell’occasione, Weinstein – che per inciso è una mente brillantissima, consiglio il suo podcast The Black Horse  e in particolare l’ultima puntata dove ospita sette intellettuali afroamericani – scrisse le seguenti parole:

“C’è una grossa differenza tra un gruppo o una coalizione che decide di assentarsi volontariamente da uno spazio condiviso per sottolineare il suo ruolo vitale e normalmente ignorato… e un gruppo che incoraggia un altro gruppo ad andarsene. La prima è una potente chiamata alla coscienza, il che, ovviamente, colpisce la logica dell’oppressione. La seconda è una dimostrazione di forza e un atto di oppressione in sé e per sé.”

In seguito a questo messaggio pienamente nell’alveo del dibattito intellettuale, politico e civile tipico di una democrazia, il professore progressista fu accusato di essere un sostenitore della supremazia bianca, fu inseguito da studenti armati di mazze e gli fu impedito di tenere le sue lezioni nel campus; dovette tenerle in un parco.

Questi fatti incresciosi rimasero per lungo tempo avvolti nel silenzio assoluto dei media perché questo tipo di razzismo non rientrava nella narrativa: gli illiberali in quel momento erano soltanto Donald Trump e i suoi sostenitori non potevano essere anche degli studenti di sinistra della middle class determinati a mettere a tacere un loro professore progressista. Una cosa, per qualche strano motivo, sembrava escludere l’altra.

In questo clima Bari Weiss fu appunto fra i pochissimi giornalisti a dare notizia di questo episodio e ora si dimette dal New York Times, il bastione del giornalismo occidentale sempre più in affanno nel mantenere una linea di area, sì, ma anche attento ai fatti più che alle ideologie.

Nella sua lettera di dimissioni, da leggere con attenzione, la Weiss denuncia il clima di oscurantismo ideologico e di maccartismo che si respira in redazione e parla del ruolo di Twitter nel decidere gli editoriali e la linea politica del giornale. Ne esce il quadro di un’istituzione sotto il perpetuo ricatto dei social network. Data la rilevanza a livello globale della testata questo è un problema per tutti, non solo per gli americani.

Il peso dello spaventapasseri

Il meccanismo è semplice: qualsiasi opinione si discosti anche in minima parte dall’ortodossia dei militanti social viene tacciato in maniera automatica e ossessiva di essere sessista, razzista, patriarcale o collaboratrice di fatto di Trump o (da noi) di Salvini, specialmente se rappresenta una modo meno talebano di essere di sinistra, giacché il nemico per eccellenza della sinistra estrema più che la destra è da sempre la sinistra moderata.

Non sono ammesse discussioni di sorta perché il grande treno progressista della storia sarebbe in viaggio e discuterne sarebbe sempre e comunque un atto reazionario in sé.

Tecnicamente questo si chiama straw man argument, l’argomento dello spaventapasseri: si mette in bocca all’avversario cose che non ha detto e se ne stravolge così totalmente il pensiero, dopo di che si attacca lo spaventapasseri, non più la persona, né la sua idea. L’interlocutore rimane così inevitabilmente schiacciato sotto il peso dello spaventapasseri.

Eccezionale veicolo di conformismo intellettuale lo straw man argument funziona perfettamente nell’ambiente dei social network perché riporta ogni gradazione intermedia e ogni distinguo interno a un discorso verso un estremo già conosciuto e commerciabile, riducendo così interi ragionamenti a quella che i pubblicitari chiamerebbero keyword, e, quel che è peggio, una keyword mistificatrice. La persona a questo punto può anche sgolarsi, ma nessuno la ascolta più, è stata cancellata.

Questo modo di rifiutare il dibattito, distorcendolo, ricorda a un lettore italiano la parte peggiore degli anni Settanta, con i deliri sulle responsabilità oggettive denunciati al tempo da Leonardo Sciascia.

In realtà democrazia, progresso ed equità non potranno mai esistere senza un dibattito pubblico in salute, aperto, libero e questo significa accettare anche opinioni che si discostino dall’ortodossia militante. Soprattutto quelle che si discostano, verrebbe da dire data la scarsissima tolleranza all’altro di queste ultime.

 

Dissenti? Ti cancello dalla società

Spesso la cancellazione prende anche forme più radicali e prevede la perdita del lavoro, la rimozione delle proprie opere dalle piattaforme, l’ostracismo sociale. Per anni Bret Weinstein è stato etichettato online come un estremista di destra e c’è voluta la nascita e l’espansione dei podcast del cosiddetto intellectual dark web perché il biologo bullizzato dagli studenti potesse ricordare che la sua biografia e il suo pensiero dicevano tutt’altro.

Weinstein è una delle tante vittime innocenti di questa nuova versione digitale della caccia alle streghe. Che nel mezzo ci siano andate anche diversi autentici colpevoli, come l’altro Weinstein (Harvey), non giustifica per un momento il trattamento che queste persone hanno ricevuto e continuano a ricevere.

Anche scrivere un articolo come questo oggi porta con sé un certo grado di rischio, il rischio di essere per l’appunto fatti oggetto di uno straw man argument e venire così classificati nel tritacarne dei social come reazionari, con tutte le conseguenze che questo comporta. Per quanto chi scrive soffra sempre un po’ un certo tipo di retorica, denunciare l’assurdità di un clima del genere, rifiutare il ricatto, opporsi alla riduzione di ogni cosa a due polarità, entrambe sbagliate, va davvero assumendo le sembianze di un dovere civile.

La cancel culture più che un movimento progressista è la notte in cui tutte le vacche sono nere e ogni pensiero non allineato, per quanto di poco, è un pensiero estremo e inaccettabile. Una radice dell’attuale contrasto fra città e periferia, fra élite e popolo, fra media ed elettorato sta anche nel rifiuto che le seconde polarità di questi dualismi fanno di quello che ritengono uno stato di polizia del linguaggio che ha da tempo superato i confini dell’auspicabile e del civile per raggiungere i livelli dell’arbitrario.

Al tempo stesso ergersi a sacerdoti di questa nuova ideologia può essere anche in Italia una via semplice e sicura per coprire dei comportamenti quanto meno dubbi, lo dimostra ad esempio l’inchiesta di Tip sull’avvocato-attivista Cathy La Torre. Un pezzo che genera però nel lettore un’ulteriore domanda: quanto ci avrebbe messo un articolo di questo tenore ad essere tacciato di sessismo se l’autore invece che Selvaggia Lucarelli fosse stato un uomo? Il problema è anche questo, affinché si possano denunciare degli autentici casi di sessismo è necessario che non ogni cosa sia automaticamente sessista.

Cosa c’entrava ad esempio il sessismo con le foto del ministro Lucia Azzolina su un sito che pubblica da sempre foto di uomini politici in costume da bagno come Dagospia? Nulla. Sarebbe il caso semmai di discutere dell’opportunità unisex di un simile genere di giornalismo.

Salvare il progressismo dai suoi distruttori digitali

La prima vittima della situazione è quindi l’autentico progressismo liberale che non può esistere senza un’analisi profonda, precisa e dettagliata della realtà, senza un meccanismo di attribuzione delle responsabilità, di riconoscimento dei meriti e, soprattutto, senza un libero scambio di idee che metta continuamente alla prova i nostri concetti di verità, di bene, di giusto.

Se siamo arrivati fino a qui, allo stato attuale della civilizzazione emancipandoci dalla nostra arcaica natura tribale è anche perché abbiamo perseguito questa idea plurale di verità, permettendo occasionalmente l’errore e agevolando, molto più spesso, la creazione di novità positive, in grado di migliorare concretamente la nostra vita, di alleggerirci cioè il fardello dell’esistenza.

Il massimalismo digitale è l’esatto contrario dell’argomentare tipico del logos occidentale e riporta in vita, seppur in forma virtuale, il tribalismo delle nostre origini. Si tratta di un meccanismo perverso che finisce inevitabilmente per avvitarsi su sé stesso alla ricerca dell’estrema purezza, ma la gara a chi è più puro finisce sempre molto male ed è un vortice pericolosamente simile a quello dei totalitarismi, perché chi non è d’accordo non è più “una persona con un’altra idea” ma un incivile, o talvolta persino “un inumano” ( è, cioè, La bestia).

Il meccanismo infatti è capace di distorcere sentimenti morali preziosissimi, come il desiderio di equità, l’antirazzismo, il senso di giustizia, rovesciandoli nel loro contrario proprio mentre non fa altro che ripeterne i nomi, ormai svuotati di senso. Il delitto quindi è doppio perché approfitta della buona fede e dei sentimenti migliori degli esseri umani.

Purtroppo per molte persone tutto questo non rappresenta un problema finché non arriva il giorno in cui assaggiano sulla propria pelle cosa significhi essere oggetto di processi sommari e ideologici e si rendono conto che in un ambiente del genere è diventato impossibile protestare la propria innocenza.

A quel punto però è in genere troppo tardi.

Un altro meccanismo ricorrente della cancel culture è il ricorso costante agli argomenti ad hominem, non rispondere cioè mai alle argomentazioni ma fare cherry picking dalle biografie degli avversari – o storpiarle del tutto –  e tentare di silenziare così la loro voce attraverso la ricerca di un rifiuto a priori da parte del pubblico al quale si richiede l’ennesima prova di appartenenza.

La Silicon Valley e la democrazia liberale

All’interno del meccanismo tritura-realtà dei social network è centrale soprattutto l’esigenza di continuare a ribadire a chi si appartiene, che sia essa la schiera dei sovranisti o quella dell’Italia progressista: più che un’analisi della realtà ai social serve sempre un capro espiatorio da sacrificare seduta stante.

Le piattaforme digitali hanno perciò responsabilità gigantesche nella crisi di senso che affligge l’occidente, sono le loro architetture ad averci reso così dipendenti dalla ricompensa neurologica che riceviamo ogni volta che ci posizioniamo in maniera univoca all’interno di una fazione e non cerchiamo invece una mediazione che consideri anche un certo grado di empatia verso i nostri simili.

Il problema però è enorme: una società incapace di affrontare i suoi problemi per il semplice fatto di essere troppo impegnata nei suoi conflitti tribali per occuparsi del merito delle questioni, non ha futuro perché non può reggere la complessità dei problemi che l’attendono.

Bisogna perciò ripartire dai fatti e sostenere che la cancel culture non esista è prima di qualsiasi altra cosa un’affermazione oggettivamente falsa, perché non sostenuta dai fatti.

Viviamo un periodo storico il cui il rapporto molto “disinvolto” – per usare un eufemismo – dei populismi con i fatti richiede al giornalismo e alla politica un’ancora maggiore serietà che passa anche dalla capacità di mostrare che i propri valori sono realmente universali, non solo a parole.

La cancel culture è la migliore amica dei Trump e dei Salvini perché con i suoi eccessi persecutori impedisce il crearsi di un’alternativa inclusiva, plurale e basata su una libertà di espressione affiancata da un vincolo di realtà.

Per questo se sia la scienza che il giornalismo – due discipline così diverse, eppure entrambe necessarie al nostro modo di vivere plurale e tollerante – vogliono tenere fede alla loro natura e al loro scopo non possono ignorare proprio una cosa: i fatti.

Per quanto odio tribale questo possa generare su Twitter.

 

 

 

ODIO  è su:

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Non censuriamo la battaglia.

Pubblicato su Domani il 19.10.20.

DELLA BATTAGLIA

Nel numero in costante aumento di modi di dire che alcuni vorrebbero bandire per sempre, uno colpisce in maniera particolare. Si tratta dell’espressione – principalmente giornalistica, ma talvolta usata nel linguaggio comune – secondo la quale una persona muore “in seguito a una battaglia” o “dopo aver perso una battaglia” contro una malattia.

Questo ennesimo tentativo di polizia del linguaggio è più importante di altri per almeno due motivi. Il primo è che riguarda chi ha sofferto fino a perdere la vita, lasciandosi il più delle volte alle spalle persone addolorate e decise a difendere la memoria del defunto, perciò il solo discuterne richiede rispetto, una certa dose di cautela e di empatia; il secondo è che il fatto stesso che esista una discussione del genere è emblematico di un cambio netto nelle idee oggi più diffuse attorno alla condizione umana.

COLPEVOLIZZAZIONE

Secondo i suoi detrattori un’espressione come “perdere la battaglia con una malattia” sarebbe offensiva perché andrebbe a infierire sulla vittima, colpevolizzandola. S’insinuerebbe insomma l’idea che nel momento in cui si perde una battaglia questo accada inevitabilmente perché non ci si è impegnati abbastanza. Una convinzione del genere implica a sua volta l’idea che l’uomo abbia la possibilità di controllare ogni aspetto della sua esistenza, oltretutto per un periodo indeterminato – potenzialmente infinito – di tempo e che superare ogni problema sia in ultima analisi sempre una questione di volontà di potenza. Una posizione tanto assurda da risultare per l’appunto estremamente significativa e meritevole di una riflessione.

In un certo senso è come se anni di telefilm di scarsa fattura che ripetevano “Sii te stesso e potrai fare qualsiasi cosa” e di pubblicità ispirazionali (dal Just do it della Nike in giù) si fossero fusi con le tante altre nervature ugualmente irrealistiche dello Zeitgeist per trasformarsi gradualmente in un substrato condiviso patologicamente negazionista, non solo rispetto alla natura della vita umana, ma anche, più modestamente, nei confronti del concetto di battaglia.

L’ESSENZA DELLA VITA

Chiunque affronti davvero una battaglia, sia essa contro una malattia, per imparare qualcosa, per riuscire in un lavoro o contro un’altra squadra in uno sport, sa che non esistono ricette sicure per la vittoria e capiterà prima o poi che anche la battaglia affrontata con il massimo dell’impegno, del talento e della tattica si risolva comunque in una sconfitta. È questa la natura della battaglia, giacché la battaglia che si può vincere con assoluta certezza non è tale. Una parte fondamentale dell’età adulta risiede proprio in quello spazio scomodissimo in cui in seguito a una dura sconfitta ci s’interroga sulla adeguatezza delle proprie azioni: il fardello dell’adulto è cioè quello di non poter mai sapere davvero se si è fatto tutto il possibile e ci si è arresi al destino oppure se qualcosa poteva essere fatto meglio conducendo così a esiti migliori. Da bambini seguiamo le indicazioni dei nostri genitori, da adulti tocca a noi l’onere dell’analisi, così come tocca sempre a noi quello, ancora più pesante, del decidere se prendere per buone le conclusioni a cui siamo giunti. Quel che è peggio, il tempo procede su un piano unico e irripetibile, non ci offre mai una seconda possibilità per risolvere lo stesso problema, ci fa semmai dono di un’esperienza che potremmo utilizzare per provare a risolvere i problemi futuri. Questo processo di valutazione, ripensamento e formulazione di nuovi tentativi per interpretare e capire il mondo è la forma più ampia e onnicomprensiva della battaglia, è l’attività principale di una vita.

La battaglia è sempre un campo di possibilità aperte, la vita un tentativo di attraversarlo indenni, il risultato non è mai garantito. Sapere tutto questo equivale a conoscere una delle regole fondamentali dello stare al mondo: chi l’interiorizza può stimare i vittoriosi ma rispetterà sempre i perdenti, soprattutto saprà che prima o poi finirà per provare entrambi i sapori e potrà al massimo ambire ad agire sulle dosi attraverso l’intelligenza, il lavoro e l’impegno. Senza per questo smettere mai di confidare nella fortuna. (Continua a leggere su DOMANI)

Illustrazione Doriano Strologo

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L’età del tribalismo (intervista a Minima & Moralia)

Di Nicola Pedrazzi

Intervista apparsa su Minima & Moralia il 24/07/2020

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odioappena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio. Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

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Nba

Il grande romanzo americano è la Nba

Articolo pubblicato su DOMANI il 7.10.20

La NBA, come ogni lega sportiva professionistica, è, prima di qualsiasi altra cosa, un insieme di storie. I tifosi di tutto il mondo amano le grandi giocate ma quello che li appassiona davvero sono le vicende dei giocatori e delle squadre, storie raccontate a fondo e con precisione dai media americani senza i deprimenti infingimenti, l’omertà e le formule vuote che circondano da sempre il calcio italiano. La qualità dello storytelling, insomma, fa il paio con quella dei giocatori. La storia delle storie negli ultimi 15 anni di Nba è stata quella di LeBron James: il prescelto, un giocatore dal talento fisico senza precedenti affiancato a ottime doti tecniche, cresciuto da una madre single nella periferia di Akron (Ohio). Una circostanza questa che è sempre al centro di ogni comunicazione pubblica di James sia esplicitamente (con l’onnipresente hastag #ThekidfromAKRON) sia implicitamente attraverso i modi spesso molti duri con cui si rapporta ai giornalisti di mezzo mondo, come se si trovasse sempre e comunque di fronte a dei privilegiati che dalla vita hanno avuto tutto senza fatica, al contrario di lui. Insomma nonostante abbia guadagnato in carriera quasi mezzo miliardo di dollari, si ritragga spesso impegnato con gli amici a degustare amaroni di Quintarelli, faccia le vacanze in yacht sulla Costiera amalfitana, LeBron ribadisce costantemente che lui lì non ci sarebbe dovuto essere, tutto il suo mondo e il suo modo di giocare – improntato a una ricerca di una dominanza, anche psicologica, che raggiunge talvolta livelli quasi brutali – sembra derivare da questa unica affermazione fondamentale. LeBron è il Re (il suo account Instagram è Kingjames), l’uomo che ha trionfato venendo dal nulla, ovvero il più americano degli archetipi narrativi. Contrariamente a Michael Jordan, che viene spesso ricordato per la sua battuta ecumenica “anche i repubblicani comprano le sneakers”, LeBron negli anni ha usato la sua figura pubblica per molte battaglie politiche a favore degli afroamericani, arrivando anche a scontrarsi direttamente con il presidente Trump che, citando il vecchio spot della Gatorade, ha detto di preferire Jordan (I like Mike).(continua a leggere su DOMANI)

Illustrazione di Gianluca Costantini

Ho parlato di questo articolo su Diderot – RSI 2 – Svizzera

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