Daniele Rielli | Daniele Rielli – IL FUOCO INVISIBILE è in libreria | Pagina 2

Gli inginocchiatori

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Un breve saggio su politically correct e ideologia Woke

Questo pezzo è apparso su Il Foglio il 3 Luglio 2021 – (Foto di Chip Somodevilla/Getty Images) 

Perché molti commentatori, giornalisti e politici faticano a capire che cosa ci sia di così fastidioso per tanti italiani nella pressante richiesta fatta ai calciatori della Nazionale di inginocchiarsi in omaggio al movimento Black lives matter? Perché non riescono ad accettare che si possa essere contro il razzismo e al contempo non sposare questa determinata forma di protesta? E’ una domanda a cui non è facile rispondere se non si prende in considerazione la natura di religione estremista che contraddistingue la cultura woke, una natura che in questa vicenda specifica si coglie da almeno due elementi, che sono poi quelli che probabilmente non convincono – a livello più o meno istintivo – anche la maggioranza della popolazione.

Il primo è la presunzione di colpevolezza universale, ovvero, in termini religiosi per l’appunto, il peccato originale. Ogni occidentale, e segnatamente ogni occidentale bianco, secondo il credo woke nascerebbe colpevole a priori di razzismo (e di sessismo e di omofobia), colpe delle quali, anche con tutta la buona volontà, non si potrà mai emancipare. Non conta il suo comportamento, non conta la sua responsabilità personale, il colore della pelle lo definisce in toto e lo definisce come colpevole. La sua perciò deve essere una vita contraddistinta dal senso di colpa, questa la sua croce, il suo destino e tutto questo in virtù della sua appartenenza razziale (è questa la direzione auto-contraddittoria che ha preso l’antirazzismo contemporaneo). Questa colpa ontologica – antitetica a una cultura della responsabilità personale – è ciò che sul piano geografico conduce alla pretesa di far travalicare al rito dell’inginocchiamento i confini della realtà sociale dove è nato (gli Stati Uniti, con la loro storia di schiavismo e segregazione), mutandolo in una più generica proposizione morale che per l’appunto presuppone una colpa condivisa, una responsabilità che da storica e locale diventerebbe presente, universale e inemendabile, tanto che anche da italiani non assecondare il rito sarebbe di per sé stesso un gesto di empietà e di colpevolezza. Andrebbe ancora bene se gli atleti potessero scegliere liberamente e individualmente se partecipare a questa ritualità – seppur così più invasiva di tante altre a cui hanno già acconsentito in passato (i nastrini per i lutti, i segni rossi sul volto contro la violenza sulle donne) – il problema sta tutto nel ricatto morale, nella pressione mediatica e nei rischi di perdere le sponsorizzazioni per chi decide in scienza e coscienza che, come lo scrivano di Melville, preferirebbe di no.

Quando una protesta diventa obbligatoria cambia la sua natura e da atto di solidarietà verso una rivolta altrui diventa imposizione e quindi, per definizione, si rovescia nel suo esatto contrario. Da qui quella sorta di obbligatorietà irritata che molti percepiscono, giustamente, come travalicante i confini di una protesta condivisibile e sentono invece come un atto di imposizione prepotente, peggio ancora come un atto di accusa del tutto immotivato nei confronti di chi vuole decidere le forme e i modi attraverso cui rappresentare la propria coscienza morale.

Le accuse generalizzate dei woke sono, a ben guardare, pesantissime e profondamente offensive. Nella loro ripetizione meccanica si perde l’assoluta gravità del fatto che per loro sia del tutto normale tacciare una larga parte della popolazione di razzismo (o sessismo, o omofobia) senza mai sentire su di sé l’onere della prova, questo però non toglie che si tratti di una generalizzazione violenta e inaccettabile: accusare qualcuno di razzismo è un processo lesivo della dignità altrui e questo non andrebbe mai dimenticato. Queste generalizzazioni arbitrarie sono però anche la pietra angolare dell’intero edificio woke: tutto crolla se solo si ricorda l’ovvio: essere nati di un determinato colore in una determinata zona del pianeta non significa in automatico essere colpevoli di ogni genere di nefandezza. Il razzismo autolesionista rimane comunque razzismo. Il credo woke con la sua pretesa di ridurre tutta la complessità dell’esperienza umana solamente all’apparenza a questa o quella categoria (bianco, nero, donna, trans, eccetera) è la più subdola e insidiosa fra le forme di razzismo.

L’idea che si possano non accettare le forme e i modi del culto woke e ciononostante non essere affatto razzisti (anzi, di fatto esserlo molto di meno), non è però, per l’appunto, contemplata. Le scelte offerte dai nuovi adepti, sempre più numerosi nel mondo dei media e della cultura, sono solo l’adesione completa o la profonda empietà. Da qui all’obbligatorietà il passo è naturalmente molto breve. Nel silenzio timoroso di ritorsioni economiche e sociali, vanno persi i distinguo, compresi i limiti e le criticità del movimento Black lives matter sul fronte interno, come i saccheggi sistematici, l’impennata di violenze nei quartieri neri a danno della popolazione nera (uno dei mantra di Blm è anche “Defund the police” togliere fondi alla polizia, non migliorarla), in particolare nei quartieri di Portland rimasti per mesi in mano ai manifestanti di Blm e senza polizia, zone dove il tasso di omicidi è schizzato alle stelle. Si oppone anche un anatema di impronunciabilità a chi fa notare la tribalità anti-illuministica del nome Black lives matter, preferito a All lives matter, slogan tanto più giusto e progressista da parere ovvio. Tuttavia anche questa semplice osservazione rispetto al nome è oggi considerata segno di massima eresia presso i credenti, non conta che il senso delle parole – se le parole hanno ancora un senso – sia fin troppo evidente: “All” è un sovra-insieme che contiene anche “Black” né conta che come concetto “Tutte le vite contano” sia molto più evoluto e includente, un vero obbiettivo a cui tendere: un mondo dove non conta più di che colore sia la pelle di una persona, non ci si fa neppure più caso perché sono altre le cose che contano. E’ questo uno dei tanti casi in cui il logos contemporaneo si piega al ricatto di appartenenza della tribù, alle presunzioni di malafede, agli straw man argument, insomma all’impossibilità di intraprendere una discussione razionale che vada oltre il ricordare a tutti che si è sempre dalla parte giusta.

Anni fa incontrai Frank Serpico nel nord dello stato di New York, mi raccontò che la sua attività principale era diventata fare da consulente per i parenti delle vittime della polizia. Seguiva omicidi sia di neri che di bianchi, la differenza principale, mi raccontò, era che nel caso dei bianchi era tendenzialmente più facile ottenere dei risarcimenti. Anche al di là dell’aneddotica, seppur di un esperto di settore, i dati parlano chiaro, in America i neri muoiono per mano della polizia percentualmente più dei bianchi, tuttavia anche i bianchi vengono uccisi a ritmi che in Europa non osiamo nemmeno immaginare. Insomma, il problema è articolato, riguarda anche la diffusione nella popolazione delle armi da fuoco, l’attitudine e l’addestramento della polizia americana, così come una concezione culturale specifica del rapporto fra cittadino e forze dell’ordine, la diffusione delle aziende private nelle gestione della sicurezza pubblica (a questo proposito può essere interessante leggere “Il dilemma dello sconosciuto” di Malcolm Gladwell), senza dimenticare le problematiche socio-economiche che rendono alcune zone delle città molto più esposte di altre al rischio di omicidio per mano della polizia. Insomma al netto delle diverse incidenze razziali che nessuno nega, il problema andrebbe affrontato complessivamente: davvero tutte le vite contano. In una situazione dai toni orwelliani molte persone negli Stati Uniti sono invece state licenziate per aver detto che come slogan avrebbero preferito All lives matter a Black lives matter (sorte toccata fra gli altri anche un radiocronista della Nba), tutto sommato quindi la pressione a cui sono stati sottoposti i calciatori italiani, per quanto espressione di questo nuovo maccartismo globale, rappresenta una fase meno intensa e precedente rispetto alle persecuzioni oggi apertamente in atto nel mondo anglosassone. Ogni giorno però l’Italia e l’Europa si avvicinano all’America.

Il credo woke ha nel capitalismo corporate il suo alleato d’elezione, perché niente torna comodo a una multinazionale quanto dare una passata superficiale di colore “inclusivo” alla comunicazione del suo brand garantendosi così maggiore benevolenza su tutto il resto: dalle condizioni dei lavoratori, alle responsabilità ambientali, alle pratiche monopolistiche. Una larga parte del sistema economico oggi ha imparato a temere le capacità di boicottaggio della minoranza woke ma sa anche che, se accarezzato dal lato giusto del pelo, questo nuovo radicalismo può rivelarsi un volano con pochi uguali per garantire affari e un sostanziale lasciapassare per le malefatte che non rientrino nel cono di attenzione dei moderni sacerdoti dell’inclusività. Per non sbagliare, gli influencer più importanti vengono comunque messi spesso sotto contratto come brand ambassador attraverso accordi che limitano la loro libertà di espressione sulle attività delle multinazionali per cui lavorano. Nel suo “Skin in the game”, Nassim Taleb ricorda che nel capitalismo avanzato vige, per motivi di mera efficienza economica, il primato della “minoranza ostinata”, in buona sostanza per quanto possa sembrare contro-intuitivo a una minoranza molto determinata basta raggiungere il 3-4 per cento della popolazione per costringere la maggioranza ad adeguarsi alle sue esigenze.

Un esempio? La limonata kosher. Laddove il costo per produrre una limonata kosher è simile a quello della limonata non kosher e i consumatori kosher raggiungono almeno il 3-4 per cento del mercato, tutti i produttori di limonata assennati produrranno limonata kosher, in genere certificata attraverso un marchio che verrà notato solo da coloro che consumano kosher (negli Stati Uniti è una U stampata vicino agli ingredienti). In termini tecnici quello che abbiamo qui è un gruppo intransigente (la minoranza) e un gruppo flessibile (la maggioranza). Una dinamica simile a quella della limonata kosher negli Stati Uniti la osserviamo nelle carni halal in Gran Bretagna. Ora, questi sono esempi di produzioni alimentari ma la stessa dinamica si può applicare alla pressione degli attivisti woke a favore di una censura del linguaggio, del licenziamento di persone che esercitano la loro libertà di espressione e altre cosiddette battaglie inclusive. La maggioranza della popolazione ritiene che siano esagerazioni ma ha altro a cui pensare, teme ritorsioni e in fondo pensa che si tratti comunque di esagerazioni a fin di bene. Finché, naturalmente, non arriva il loro turno. Non è in corso quindi nessun rinascimento inclusivo, né alcun cambiamento nella sensibilità popolare: si tratta di un meccanismo di mercato capitalista. In sostanza stiamo parlando, almeno finché i costi rimangono equiparabili, di una sorta di dittatura nascosta delle minoranze. La battaglia attorno alle parole segue la stessa logica: non è certo delle più costose in termini produttivi – una pubblicità costa grossomodo uguale che sia censurata o meno – quindi rientra in questa dinamica. I costi culturali e democratici sono in compenso elevatissimi, perché il linguaggio è un bene comune e il fatto che venga preso in ostaggio dalle minoranze ideologizzate genera danni collettivi pesanti e finisce per cambiare l’essenza stessa del nostro sistema politico. Si pensi a come in pochi anni minoranze risicatissime ma ostinate siano riuscite a far passare diverse aberrazioni linguistiche anche nella lingua italiana.

In virtù di questo genere di meccanismi il marketing corporate è una delle grandi forze propulsive storiche del wokismo, come ha colto in profondità anche Bret Easton Ellis nel suo “White”. L’altro fattore centrale nell’affermazione del wokismo è stata la diffusione dei social network. Marketing aziendale e social network rappresentano rispettivamente il braccio strutturale e quello sovrastrutturale del culto woke, d’altronde non si è mai vista una religione che si sia affermata senza incarnare le esigenze strategiche delle parti sociali più influenti del proprio tempo o senza che i suoi contenuti avessero la giusta fitness evolutiva rispetto alle caratteristiche dei media più diffusi. Questo concretamente significa che le religioni si adattano ai mutamenti dei mezzi di comunicazione, per cui se in una società della tradizione orale è importante essere degli abili racconta-storie attorno al fuoco o stratificare efficaci narrazioni metaforiche all’interno dei riti sacrificali, in quella della scrittura è centrale la redazione di testi sacri, in quella della stampa e della televisione è importante un controllo dei media di massa. La società dei social network non fa certo eccezione e la sua architettura premia coloro che sanno avvantaggiarsi della dinamica vittimaria e del rogo primordiale del capro espiatorio perché è questo il modo con cui le piattaforme massimizzano il tempo che gli utenti passano esposti alle pubblicità. In un certo senso nella scala della storia si tratta di un’involuzione messa però in atto con ampio dispiegamento di tecnologie raffinatissime. La disintermediazione per molti aspetti primitivizza e appiattendo ogni cosa riporta allo stato originario di guerra di tutti contro tutti. La figura centrale dell’epoca woke è la vittima sacra, che ha sostituto quella del vincente, dell’uomo pio o dell’uomo virtuoso delle epoche precedenti. Il cambiamento è agevolato dal meccanismo di denuncia perpetua dei social network, ambienti in cui l’incentivo numero uno per ottenere l’attenzione è la denuncia di qualche malefatta subita, sempre nel codice più binario, immediato e bianco e nero possibile. Il meccanismo è ciclico per cui la vittima di oggi può facilmente diventare il capro espiatorio di domani, come vediamo accadere più o meno quotidianamente.

sacerdoti supremi di questo meccanismo in virtù del quale l’indignazione genera attenzione che a sua volta genera denaro, sono naturalmente gli influencer. Proprio su queste pagine è apparso un bel racconto di Michele Masneri a proposito di un suo scontro con l’Estetista cinica. Dai dettagli della storia emerge il ritratto di un’industria che sul mercato dell’indignazione prospera, inscena scientificamente una sorta di wrestling morale, dove l’indignazione forse non sarà genuina ma di sicuro genera engagement e aumenta i fatturati. Curiosamente, nonostante la brillantezza del suo pezzo e la durezza dell’esperienza subita, Masneri ironizza sull’“improbabile dittatura del politicamente corretto” senza cogliere come le due cose siano fra di loro legate in maniera indissolubile: il vittimismo è precisamente la radice filosofica del politicamente corretto. Il secondo non può esistere senza il primo. Il secondo segnale che l’affaire inginocchiamento ci offre rispetto alla natura religiosa del wokismo è fin troppo chiaro e sotto gli occhi di tutti: è l’atto dell’inginocchiamento in sé.

Poche cose sono più potenti di un’analogia quando si tratta di sintetizzare concetti complessi e c’è qualcosa di fin troppo evidente nella radice teologica nel gesto di inginocchiarsi di Black lives matter. Nella nostra cultura ci si inginocchia solamente di fronte a Dio (o almeno così fanno i credenti) o in situazioni estreme in cui la dignità personale viene messa da parte per gli scopi superiori, come la richiesta di perdono o per una proposta di matrimonio. Pentimento o amore, non proprio due motivi banali, come è giusto che sia perché l’inginocchiarsi è un’infrazione piuttosto pesante alla dignità di un uomo o di una donna propriamente detti. L’espressione “con la schiena dritta” esprime l’altro estremo, quello auspicabile, della metafora fisico-morale. Non ci si inginocchia a cuor leggero, con buona pace di tutti i commentatori che dicono “cosa costerà mai inginocchiarsi”. Dipende, temo, da quanto valore si dà alla propria dignità personale, alla simbologia corporea, al potere delle metafore, all’idea che sia importante chiedere scusa ma solo quando si sia veramente colpevoli di qualcosa, altrimenti si tratta di una banalizzazione o di una subdola forma di sopraffazione. Per altro è piuttosto ironico che questa propensione a inginocchiarsi come si trattasse di bere un bicchier d’acqua arrivi da un culto la cui origine filosofica affonda nel post-strutturalismo francese. Era proprio Michel Foucault, infatti, a parlare di corpi docili, forgiati dai regolamenti invasivi delle istituzioni pubbliche e private, istituzioni che attraverso il governo dei piccoli gesti quotidiani arrivavano a dominare le menti e i cuori degli uomini a loro sottoposti. Su questo Foucault aveva ragione e l’obbligo di inginocchiamento non fa eccezione: è ginnastica mentale oltre che fisica ed è una metafora di sottomissione, come lo sono ogni piccola e grande prepotenza a cui i woke vogliono sottoporre, attraverso leggi, regolamenti e ricatti occupazionali, il resto della popolazione.

Tutto questo scompare però nella capacità di unire queste contraddizioni all’interno di un principio unificante, l’idea cioè che tutte queste dinamiche – che contengono i semi di una deriva autoritaria – siano in fondo meno importanti dello scopo, in questo caso l’eliminazione del razzismo. Che questo modo intollerante, settario e tribale di provare a risolvere questi mali sia l’unico possibile e che sia in qualsivoglia modo efficace è qualcosa su cui però non ci sono dubbi di sorta: non solo non funziona ma fortunatamente non è nemmeno l’unico modo. L’illuminismo con i suoi ideali di uguaglianza di fronte alla legge è un modello universale non perfetto ma infinitamente superiore dal punto di vista sia della raffinatezza teorica sia dell’efficacia pratica. Ci sono cioè modi migliori di cercare di eliminare il razzismo, il sessismo e l’omofobia, ad esempio smettere di giudicare una persona prima di tutto sulla base del suo colore della pelle, del suo sesso o del suo orientamento sessuale. Un nero non è necessariamente una vittima sacra, un bianco non è necessariamente un carnefice fascista: sono esseri umani. Ai woke piace raccontare l’inclusione come il risultato delle sue battaglie ma prima dell’esplosione del culto questa era già la direzione a cui era avviato da tempo l’Occidente, con risultati sempre più incoraggianti. Che ogni cosa si possa risolvere dall’oggi al domani e che il sistema sia in toto disfunzionale in ogni sua manifestazione e intenzione, è invece la tipica convinzione massimalista woke (proprio come il postulato del razzismo universale), frasi che suoneranno bene su Instagram ma non hanno alcuna aderenza con l’effettiva realtà delle cose. La direttrice di Quilette, rivista americana che si occupa di documentare la deriva totalitaria del wokismo, ha detto a proposito della Critical race theory (il capitolo del wokismo che si occupa di razzismo) che “l’etichetta di “teoria” non dovrebbe essere applicata a un gruppo di assiomi che hanno un livello di sofisticazione superato da molti bambini dell’asilo”. Questa sua semplicità apodittica, unita all’efficacia del ricatto morale e al timore di ripercussione professionali, è però precisamente anche la sua forza nell’ambiente informativo digitale in cui viviamo.

C’è anche un’altra questione che va considerata nel successo di Blm e del movimento woke presso le élite bianche occidentali (sappiamo dalle ultime elezioni americane come il wokismo stia allontanando l’elettorato nero dai liberal, è insomma del tutto controproducente rispetto ai suoi scopi ufficiali); da critica sociale il wokismo è passato a neo-religione primitiva per molti motivi ma anche, e forse soprattutto, per riempire un vuoto. Jordan B. Peterson, il più colto e lucido fra i critici dell’ideologia woke, è stato il primo a notare come questo culto sia esploso fra le fila dei figli dei baby boomer liberal, esponenti della classe media culturale occidentale in via di scomparsa – almeno dal punto di vista economico – individui privi di una seria posizione socio-economica nel mondo e di una religione, aperti all’universalità del desiderio ma con risorse limitate in maniera grottesca rispetto all’ampiezza delle loro aspettative, oltretutto afflitti spesso da un radicale senso di colpa per una vita vissuta sui patrimoni dei genitori. Una popolazione con delle caratteristiche ideali per il fiorire del fanatismo woke, fenomeno che delle religioni seleziona alcuni dei tratti peggiori ma se non altro ha il pregio di fornire ai suoi adepti delle mappe morali, una prospettiva di senso, per quanto con forti tratti persecutori e una intensa pulsione autodistruttiva. Il risultato paradossale è che oggi questa fascia di persone estromessa brutalmente dalla classe media sembra avere come prima preoccupazione politica l’esistenza di un patriarcato estinto in realtà ormai da decenni.

Un limite del dibattito pubblico occidentale nei riguardi dello studio delle religioni è il concentrarsi in maniera grossomodo esclusiva sulle violenze e le discriminazioni che le maggiori fedi hanno agevolato lungo la storia, dimenticando spesso di aggiungere all’equazione anche i loro effetti benefici, come la riduzione della conflittualità interna, lo sviluppo di un’etica pubblica e quello delle arti, solo per citarne alcuni. Lo stesso concetto di uguaglianza fra gli esseri umani era un’assoluta novità storica quando fu introdotto dal cristianesimo. Questo buttare via il bambino con l’acqua sporca ha fatto in modo che si sottovalutasse l’alto tasso di antifragilità contenuto nella tradizione, il fatto, in sostanza, che le religioni, essendo stratificazioni secolari quando non millenarie di strategie di sopravvivenza evolutive, siano passate attraverso un meccanismo di affinamento e miglioramento lunghissimo, orientato a eliminare gli eccessi e selezionare gli aspetti più stabili. Ora, tutto questo è difficile da cogliere non solo per un discorso storiografico ma anche perché i cambiamenti tecnologici degli ultimi due secoli hanno totalmente mutato il nostro immaginario, relegando progressivamente le religioni tradizionali in un angolo piuttosto tristanzuolo e celebrando a senso unico il nuovo. Ci sono poche cose che oggi appaiono così fuori dal tempo e uncool come un prete, forse solo un prete che cerca di rimanere al passo coi tempi. Consolerà forse i credenti sapere che le cose non vanno poi tanto meglio per i filosofi atei: il presente è più che religioso, è bigotto di un bigottismo nuovo. Il punto è che non sa di esserlo. L’immaginario va tutto in una nuova direzione come dimostra il felice matrimonio fra le industrie della moda e dello spettacolo con il wokismo. Il tribalismo e la discriminazione si coprono con le pelli del loro contrario, si ammantano di valori che in realtà rinnegano. In questo sta tanta parte della sua insidiosità. Il wokismo ha, come ho sostenuto qui sopra, i tratti di una religione estremista e radicale, ma è anche un fenomeno giovane a sufficienza perché gli manchi quel lungo percorso evolutivo che lo porterebbe o a estinguersi o a mitigarsi, a migliorare cioè la propria sostenibilità.

Religione laica senza una storia alle spalle, il woke al momento ricorda per certi aspetti quei meccanismi infernali di pensiero – la gara a chi è più puro, la delazione come regola, l’idea di creare da zero un’umanità nuova – che hanno contraddistinto i totalitarismi del Novecento. In “Arcipelago Gulag” di Solgenitsin vediamo in atto molti meccanismi simili a quelli implementati dal wokismo e della cancel culture, con la principale differenza che a oggi mancano al woke gli esiti violenti. In compenso sono già in atto la spogliazione delle persone dei loro diritti, della loro dignità professionale e la caduta nell’ignominia e nell’impossibilità di svolgere il proprio mestiere per essersi macchiati di quelli che sono sostanzialmente reati di pensiero. Tutto questo è un attacco alle fondamenta della società liberale occidentale, rispetto alla quale il diffondersi del wokismo – con i suoi ricatti morali subdoli, la sua alleanza con le forze produttive, la sua doppia morale – è una minaccia esistenziale con pochi precedenti, un ritorno al fascino antico della tribù. E’ difficile tuttavia che il wokismo duri a lungo nel tempo, gli esiti più probabili sono la sua graduale estinzione o un rafforzamento della sua egemonia culturale che molto probabilmente porterebbe, per effetto della sua elevata tossicità, al definitivo tramonto dell’Occidente. In entrambi i casi difficilmente potrà essere un fenomeno duraturo nei termini in cui si presenta oggi: nessuna società può reggere una deriva al contempo ultra-ideologica, anti-scientifica, anti-religiosa e tribale; non le rimarrebbe niente su cui basarsi e finirebbe per mangiarsi da sola. La prima opzione, l’estinzione del culto, è naturalmente quella che mi auguro, ma in ogni caso non si tratterà di un processo rapido e perché accada sarà necessario l’emergere di un nuovo sistema di senso che rinnovi le promesse illuministiche non solo nelle menti ma anche nei cuori. Un compito che oggi appare di una difficoltà assoluta. C’è, insomma, più di qualche motivo per non prendere affatto alla leggera il dilemma dell’inginocchiamento e ce ne sono di certamente validi per rifiutare l’equivalenza anti-woke=razzista. Il più delle volte è vero l’esatto contrario.

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IL PARADIGMA CHIARA FERRAGNI

(una versione più breve di questo pezzo è uscita sull’inserto culturale de Il Foglio il 4.01.2020 – Foto LaPresse)

Rispetto a Chiara Ferragni le reazioni più comuni sembrano essere due: interesse accompagnato da quella trasognata ammirazione di superficie che si riserva alle vite inaccessibili ai più (sul genere insomma delle “vite dei reali”, ma modernizzato) oppure l’odio generato dall’invidia, dal rancore, dall’esclusione. Personalmente credo di far parte di una terza fazione, la minoranza, comunque cospicua, di coloro che messi di fronte al racconto articolato su più canali della vita di Chiara Ferragni più che odio provano soprattutto noia.

La visione del documentario prodotto da Amazon Chiara Ferragni Unposted mi risulta cioè prima di qualsiasi altra cosa noioso in forma davvero quasi insopportabile mentre – sembra assodato anche dall’esistenza del documentario stesso – milioni di persone dentro questi brandelli di pose, sezioni di vite quotidiane e problemi che si fa anche fatica a chiamare tali (quali scarpe mi metto? Queste o quelle?) devono senz’altro vederci un valore d’intrattenimento. Un mistero che invita alla riflessione visto che la risposta “sono tutti idioti” non è una risposta quanto piuttosto, questa sì, un’idiozia. Quello che segue è quindi un umile tentativo di decifrazione.

Prima di tutto Chiara Ferragni è simpatica, di una simpatia semplice da ragazza lombarda comune e con un forte accento. Come la maggior parte delle icone pop la Ferragni sembra un po’ più intelligente della media (non geniale ma certo non stupida), un po’ più bella della media (non di una bellezza paralizzante ma certo non brutta), dotata di amiche che parlano proprio come le tue amiche e di quegli amici gay e cool che tante ragazze di provincia vorrebbero avere per sentirsi nella grande città o dentro una serie tv. Se la rockstar di un tempo era una persona dotata di almeno un talento artistico eccezionale e grazie a esso aveva accesso a una vita pazzesca, Chiara Ferragni è più simile alla tua amica carina scaraventata dentro una vita da star senza che si capisca bene il perché. O almeno questo è il messaggio. Dentro questa vita pazzesca la Ferragni fa esattamente quello che farebbe la tua amica. È il vecchio archetipo from rags to riches del cinema hollywoodiano o la riproposizione del gioco a premi televisivo. Perché Chiara Ferragni potresti essere anche tu e senza bisogno di imparare a cantare o recitare o, ancora, ricevere in eredità milioni di dollari. Non è vero, ma tutto cospira per fartelo pensare.

In un piccolo siparietto la Ferragni racconta, subito prima di incontrare Paris Hilton, di aver letto un libro in cui l’ereditiera insegnava come essere una milionaria. Quello che conta però è la battuta successiva dove la Ferragni dice pressappoco “tralasciando il fatto che devi avere i milioni”. Scena successiva davanti alla casa über-kitsch dei cani della Hilton e Fedez chiede, in italiano, “Ma ci pagate l’Imu?”. In un’altra scena una modella saluta la Ferragni e subito Fedez fa un video in cui dice “e poi lei ha salutato Chiara e anche me” tutto emozionato. La cifra dunque è evidente: sono due simpatici inadatti, fanno cose semplici e sono inopportuni quanto l’italiano che diventiamo più o meno tutti quando siamo all’estero. Permettono di sognare cose banali ma proprio per questo condivise. Soprattutto hanno creduto in sé stessi quando tutti li criticavano e guarda ora dove stanno. Insomma, successo a parte, sembrano quasi identici al loro pubblico.

La seconda caratteristica della vita da star senza essere delle star in un campo specifico è che Ferragni e il suo staff sembrano dei travet in trasferta. Tutti MacBook e pianificazione, sono prima di tutto imprenditori dell’immagine, il sogno milanese nella sua accezione più diligente. Stanno a Los Angeles o a Miami ma non danno mai l’impressione che finite le riprese si drogheranno, faranno del sesso di gruppo, né berranno molto o faranno altre cose stupide ma epiche per poi ritrovarsi il giorno dopo in un hangover clamoroso a sorvolare l’oceano su un volo privato e pensare alla semplice, rassicurante ma ormai irrimediabilmente lontana, ingenuità dei loro giorni poveri. Questi cliché sulla vita da star appaiono irrimediabilmente sorpassati.

Ferragni e i suoi sembrano perfettamente pacificati, capaci di vivere adagiati e iper-professionali sopra un inesauribile flusso di endorfine, like, consigli di amministrazione e branded content, la tristezza appare una sensazione confinata, in dosi omeopatiche, a quei giorni in cui hai poche proposte di sponsorizzazione. Per capirci, il trauma fondativo nel documentario è il divorzio dei genitori, first world problem per antonomasia. L’unico nemico sono gli haters, categoria sommamente fastidiosa, è vero, ma ormai lo sanno anche i bambini: è soprattutto gente che rosica.

Questa medietà positiva e inoffensiva, senza scossoni, è precisamente quello che piace ai brand che vogliono accesso ai milioni di followers senza complicazioni: messaggi semplici, controllati, mai controversi, il più possibile universali, quindi minimi. I due livelli, verità e finzione, sembrano fondersi fino a perdersi l’uno nell’altro grazie al minimo comune denominatore della medietà assoluta. Non la medietà economica o di riconoscibilità – si capisce che non è questo il caso – ma la medietà di pensiero nel senso di complessità del rapporto con l’esistenza. Bisogna prendere in considerazione l’ipotesi che il documentario non dica in fondo molto su Chiara Ferragni non tanto per le mancanze della regista quanto perché forse non c’è molto altro da dire e che questa mancanza di contenuti associata a un’amabilità di superficie – a matrice universale – sia precisamente l’origine del successo planetario della protagonista e in fondo sia anche l’unico tema che valesse la pena di affrontare parlando della Ferragni.

Che una narrazione appaia del tutto priva di polarità negative è però una sorta di novità storica. Ogni cultura umana è stata sempre caratterizzata trasversalmente dalla convinzione che l’atto fondativo del raccontare storie avesse bisogno di una certa dose di drammi e di ostacoli, di difficoltà e di sconfitte, assieme a qualche vittoria strategicamente posizionata. L’empatia che le storie sono in grado di generare si è sempre basata anche sulla condivisione della difficile condizione umana. Si conquista Troia, sì, ma a che costo. Si raggiunge la Terra Promessa, ma non è un viaggio che rifaresti volentieri. In questa specie di racconto a bassissima intensità che invece è la vita condivisa di Chiara Ferragni non c’è traccia di autentica drammaturgia (l’apice sono degli eventi rappresentati come monadi perfette e confezionate: il matrimonio, la nascita del figlio), c’è in compenso una ragazza un po’ sopra la media per alcuni aspetti che parla ossessivamente di sé, articola la sua visione del mondo in assunti che paiono presi di peso dai dialoghi di una soap.

Un codice verbale il cui apice si raggiunge nella ricostruzione dello scontro/cancellazione dalla vita della Ferragni del primo fidanzato e co-fondatore del piccolo impero aziendale, un episodio che si articola su un numero quasi letale di frasi fatte del tipo “non conosci mai veramente le persone” o il momento in cui lei confessa al collaboratore che se è riuscita superare questo (ovvero la nascita del primo figlio) può superare qualsiasi altra asperità. Al mondo nascono ogni anno circa 130 milioni di bambini, la nascita di quello della Ferragni però più che come un fatto umano con una sua importanza emotiva ed esistenziale viene tratteggiato con la deferenza reverente con cui si narrerebbe un evento che divide le acque. Il risultato è una caricatura, una soap opera, appunto.

Chiara Ferragni si muove per luoghi iconici, indossa vestiti costosi e per alleggerire il tutto non perde mai la sua già citata inadeguatezza da ragazza di provincia. Per altro anche nel vestirsi non sembra seguire una direzione stilistica precisa o, parrebbe, conscia. Nei filmini di famiglia della giovane Chiara si vedono viaggi in giro per il mondo e una bambina felice, tutto sotto lo sguardo costante di una telecamera. La sua vita da influencer appare come una continuazione monetizzata di quei filmati. Non sembra esserci in palio nessun altro valore aggiunto per lo spettatore oltre al piacere di osservare dal buco della serratura un tipo di felicità che sembra presa di peso dalle promesse delle pubblicità e che, infatti, diventa pubblicità a sua volta.

Forse conta che sia tutto immediatamente a portata di dito mentre le storie a cui eravamo abituati richiedevano tempo ed energie cognitive per essere consumate e comportavano l’esposizione ad effetti collaterali come l’emergere di una certa tristezza, della sensazione che la vita sia in fondo fin troppo dura o anche soltanto un po’ malinconica. È possibile che sia necessario allargare lo sguardo e pensare al tipo di fruizione che viene fatta dei contenuti prodotti da un influencer: spezzettati e inframmezzati alla vita del follower, quasi senza una vera soluzione di continuità.

Un’ipotesi è quindi che il racconto della Ferragni sia perennemente positivo e non conosca polarità negative perché queste ultime sono già contenute, e in abbondanza, nella vita dei possessori dei telefoni dove scorre la sua vita idealtipica. L’atto di sbloccare l’iPhone ogni dieci minuti, spiare Instagram e poi rimettere tutto in tasca mentre il capo parla, finisce quindi per far sbiadire ulteriormente, fino quasi a scomparire, i confini fra la realtà e la rappresentazione. Secondo questa direzione d’indagine la vita della Ferragni e dei suoi colleghi sarebbe l’ultima versione disponibile, la più avanzata, di quella sorta di opera d’arte totale che nasce dalla progressiva unione di autore e fruitore.

Osservando quindi dalla giusta distanza l’immutabile legge della narrazione sembrerebbe ristabilita: la vita è difficile ma ci sono anche dei bei momenti. La differenza è che si tratta di un racconto scisso: l’influencer porta all’economia della storia solo le polarità positive, mentre il follower apporta le polarità negative. Dall’unione nasce la storia condivisa: l’influencer è sempre anche un po’ un amico virtuale.

Ma che dire della polarità positiva? Avanza nella mente dello spettatore del documentario l’ipotesi finale, quella più angosciante, ovvero che questi giovani e abili imprenditori della medietà siano in fondo perfettamente felici così – nel loro perenne stato di negazione di qualsivoglia difficoltà – e che tutta quella insoddisfazione e ineliminabile turbamento che hanno accompagnato la storia umana fossero in fondo una questione di cattiva organizzazione. Fossero cioè l’eredità di padri e madri che crescevano i figli dentro paradigmi culturali disfunzionali, della mancanza di medicinali, di cattiva alimentazione o di stili di vita scorretti, abuso di droghe, poco movimento fisico, nessun like sui social, redditi troppo bassi. Risolte tutte queste cose – nel caso dei like risolte alla grande –, disciolta ogni ideologia con le sue inevitabili incrostazioni, gli ostacoli alla felicità sembrano improbabili o, meglio ancora, del tutto incomprensibili. La chiamavano poesia, ma era indigestione, parlavano di tragedie ma la realtà è che non avevano un buon personal trainer. È un’ipotesi che prende piede ogni giorno di più in Occidente e, bisogna concederlo alla scienza, nemmeno fra le più assurde.

Alla fine arriva però l’unico momento di verità del documentario a smentire l’ipotesi di una novità antropologica così radicale, l’idea, cioè, di una pacificazione assoluta. È la confessione – in lacrime – dell’ansia esistenziale di Chiara Ferragni rispetto alla prospettiva di non essere nessuno, di non lasciare un segno in questo mondo. Un turbamento con il quale per la prima volta è possibile sentire qualcosa che risuona (il richiamo profondo di una verità sulla condizione umana), una tensione che la Ferragni risolve con una strategia perfettamente simbolica del tempo storico: di fronte alla sua assoluta intercambiabiltà, alla sua mancanza di talenti che giustifichino uno stato di eccezionalità, Chiara coagula abilmente consenso attorno al racconto di una medietà assoluta e attraverso questo consenso, questo esercito di like e di occhi in osservazione da rivendere ai brand, raggiunge uno stato di decisa negazione della medietà: diventa una star. I fan la amano, ma se c’è proprio una cosa che Chiara Ferragni non voleva nella vita è essere come i suoi fan. I fan, d’altro canto, sono d’accordo: non è un granché essere loro. Complessivamente il messaggio è di un nichilismo assoluto e come tale perfettamente in tono con l’epoca. Va da sé che come detto la Ferragni sia in realtà un po’ sopra la media in praticamente ogni campo, ma giusto quel tanto che basta per rimanere comunque credibile nella recita della medietà assoluta.

Questa recita digitale della medietà come via maestra per lo stato di eccezione, per il raggiungimento di fama e di riconoscibilità – la negazione esatta della medietà anonima – sta al cuore della nostra epoca, è lo stesso meccanismo alla base del consenso dei politici populisti e rappresenta l’uso più efficiente dell’ecosistema digitale. È la differenza che si crea nell’atto di negare ogni differenza. La tecnologia, ancora una volta, dà la forma alla sovrastruttura culturale, la determina in maniera ineluttabile. Alla fine della visione del documentario ho ripescato questa poesia di Michel Houellebecq, perfetta, credo, per chiudere un pezzo su Chiara Ferragni unposted:

Sono in un sistema liberale

Come un lupo in un terreno incolto,

Mi adatto relativamente male

Cerco di non fare storie.

(…)

Sono a metà delle vacanze

Come un attore senza sceneggiatura,

Ma so che altri danzano

E che si riprendono con la telecamera.

Qualche storia, tuttavia, mi sembra qui di averla fatta.

I segreti di Succession

 

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da Il Foglio del 20/12/21

In questo momento nessuna serie tv fonde realtà e finizione meglio di Succession, il prodotto di punta di Hbo la cui terza stagione si è appena conclusa con due puntate girate interamente in Italia, fra Toscana, Milano e Lago di Como. Nata dalla penna di Jesse Armstrong la serie racconta le vicende di una famiglia – i Roy – a capo di uno dei più grandi gruppi mediatici del mondo, un clan pensato, almeno inizialmente, per assomigliare a quello dei Murdoch. Come nel caso dei Murdoch l’impero è globale, c’è un figlio di primo letto praticamente estraneo al business (nella serie è Connor, un anarco capitalista non dei più brillanti) e tre figli di secondo letto chiamati a contendersi il business del padre.

Le analogie non si fermano qui: Waystar-Royco, il gruppo dei Roy, possiede l’ATN, un canale d’informazione conservatore che assomiglia a Fox News, compra Vaulter, un’azienda digital che ricorda Vice, e viene coinvolta in uno scandalo che sembra alla lontana quello delle intercettazioni che coinvolse i Murdoch in Inghilterra. Elementi caratteriali e cenni biografici dei Murdoch si ritrovano anche nei singoli personaggi di Succession, mischiati però a cose inventate o prese dai membri di altre grandi famiglie del mondo dei media. Sappiamo che Elisabeth Murdoch è una fan dello show, così come lo è Jerry Hall, la quarta moglie di Rupert, il che è rilevante specie se si considera che non si tratta in alcun modo di una serie agiografica.

Ogni cosa in Succession è studiata al millimetro, esistono pagine Instagram che censiscono ogni singolo capo d’abbigliamento o accessorio che appaia nella serie, sono studiati persino gli sfondi degli iPhone dei protagonisti anche se in video appaiono solo per una frazione di secondo, così come ci si può fare qualche risata mettendo il fermo immagine e guardando i sottopancia dei servizi ATN che appaiono sui televisori sullo sfondo di alcune scene. Al di là degli easter eggs per i maniaci, lungo le sue tre stagioni la serie ha creato tutta una serie di stilemi che contribuiscono alla sua immediata riconoscibilità. Prima di tutti il grande sfoggio di aerei, elicotteri e yacht privati grandi come navi da crociera. I mezzi produttivi di Succession sono faraonici ma, seppur centrali alla ricostruzione della vita di una famiglia di miliardari, da soli non basterebbero: è la cura nella psicologica dei personaggi ciò che rende Succession il miglior show televisivo del momento.

Il padre, Logan Roy, è l’uomo che ha costruito l’impero; ormai ottantenne e con una salute malferma deve nominare un successore. Uomo spregiudicato, straordinariamente abile nelle trattative, nelle politiche di acquisizione e nei rapporti con la politica, Logan è tutt’altro che stupido ma non riesce a farsi una ragione delle diverse fragilità dei suoi figli, né a instaurare con loro un rapporto funzionale.  Tolto “l’idiota” Connor, i tre figli papabili per la successione hanno tutti problemi apparentemente insormontabili: il maggiore, Kendall, ha studiato a lungo la materia ma ha avuto anche problemi con le droghe e, più rilevante, manca di killer instinct e forse anche di lungimiranza imprenditoriale. Kendall è anche il re incontrastato di un sentimento contemporaneo il più delle volte evocato a casaccio ma che nel suo caso è invece perfettamente adeguato: il cringe, ovvero lo stato d’animo che evoca colui che non coglie la sua inadeguatezza o si produce in comportamenti che non hanno alcun senso in un determinato contesto, come mosso da un segreto desiderio di auto-umiliazione.

Il secondo figlio è Roman, tagliente come uno stand up comedian e probabilmente il più intelligente dei tre dal punto di vista del business, è però anche quello che un tempo si sarebbe definito “un degenerato”: onanista compulsivo, è molto attratto dalle donne più anziane con cui lavora e per nulla da quelle più giovani che frequenta. Per quanto basti sempre molto poco per liberarsi di lui, di questi tempi Roman è una specie di bomba sul punto di esplodere e vive protetto da un cordone sanitario di costosi NDA (accordi di riservatezza) che gli avvocati di famiglia fanno firmare alla persona di turno. Ha inoltre un gigantesco complesso di inferiorità verso il padre che non gli permette di confrontarlo direttamente.

Non va meglio con Shiv, la figlia femmina è un coacervo di contraddizioni persino peggiore dei fratelli. Inizia la serie lavorando come stratega per dei politici democratici che vedono suo padre come Satana, Shiv pensa di essere molto più intelligente di quello che realmente è, ha un marito-trofeo che tradisce e tratta come uno schiavo castrato. Rispetto ai fratelli manca anche di capacità di analisi perché è accecata da un moralismo woke che le impedisce di vedere la realtà delle cose, ma, per sua sfortuna, non le impedisce di credere di averle capite meglio di tutti, il che la conduce regolarmente a risultati disastrosi.

La successione al trono avviene in un periodo in cui l’espansione durata decenni della Waystar-Royco si è fermata per via del successo sul mercato delle aziende tech che rubano ai media tradizionali gli “eyeballs”, ovvero le paia d’occhi, il tempo d’attenzione: l’oro della contemporaneità. Insomma i figli si fanno la guerra per prendere il controllo di una nave che sta rapidamente affondando. Posizionandosi in un punto decisamente strategico della storia – quello del passaggio dalla società della tv e dei giornali a quello del digitale e delle piattaforme – Succession racconta una crisi che tolti i gli aerei privati, le ville e gli altri lussi, assomiglia a qualcosa di cui molti hanno fatto o stanno facendo esperienza: il rallentamento complessivo dell’Occidente, la brusca riduzione delle aspettative, una lampante iniquità generazionale, seppur vissuta generalmente nel confort.

Succession tuttavia non è una serie moralista o di denuncia è qualcosa di più simile a un dramma shakespeariano declinato nella modernità e con frequenti incursioni nella dark comedy. Che il tono della serie sia complesso e articolato si capisce anche dai pareri degli attori: secondo Kieran Culink (Roman Roy) è una commedia, secondo Jeremy Strong (Kendall Roy) è un dramma. La verità è che hanno ragione entrambi e l’abilità di Jesse Armstrong e della sua writer’s room nel far convivere armoniosamente i generi senza scivolare nel grottesco ha dell’impressionante.

La modernità di Succession non sta però solo in questo compenetrarsi dei generi – una caratteristica comune a molte delle migliori serie della golden age della tv – ma anche nella capacità di utilizzare degli archetipi profondi ed eterni raccontando fatti, realtà e linguaggi strettamente contemporanei. Tutta la serie è intrisa di riferimenti alla mitologia e all’età classica, dal figlio Roman saltuariamente chiamato dal padre Romulus, ai discorsi alla memorabile cena con la famiglia rivale dei Pierce, snob possessori di un gruppo mediatico progressista che i Roy stanno cercando di acquisire, fino agli elmi corinzi nell’ufficio di Logan e alla puntata intitolata “Argestes” dal vento greco che spazza le nuvole. Succession vive del contrasto fra queste premesse archetipali, profonde, eterne e dialoghi che alternano battute troppo acute e intelligenti per essere vere – alla Aaron Sorkin, cioè – a momenti di profonda, realissima, inadeguatezza contemporanea. Non è un caso che nella terza stagione due puntate abbiano lo stesso titolo di libri per bambini e in una scena Logan legga a un nipote una storia che ricorda le vicende di Kendall, suo figlio e il padre del bambino.

Gli eredi Roy sono precisamente bloccati nel rito di passaggio contenuto all’interno del mito, sono prigionieri di un’infanzia infinita, una condizione di cui non hanno però alcuna contezza, il che naturalmente non fa che peggiorare la situazione. La differenza dei dialoghi iper-intelligenti delle serie di Aaron Sorkin (The Newsroom, The West Wing) e quelli che in parte occupano Succession è perciò che i secondi sono paradossali perché non sono pronunciati da persone con capacità super umane che dominano gli aspetti più difficili dell’esistenza, bensì da falliti intelligenti, persone che hanno un surplus di educazione, sì, ma che sono anche vacue e modaiole, abilissime nel cogliere le tendenze – anche aziendali – del momento, le parole chiave, così come conoscono il riferimento middle o high brown di turno, ma sono anche del tutto prive di consistenza, di quelle virtù istintive e di quella stabilità emotiva necessarie per agire nel mondo. Nonostante tutti gli sforzi e l’infinità dei mezzi sono come rotti in partenza.

Non a caso Logan Roy, ovvero colui che ha costruito tutta la baracca, indugia molto raramente nell’ironia, che deve sembrargli niente di più di una comoda via di fuga. La tragedia degli eredi Roy è anche il fatto che, al contrario del fratello Connor, continuano a provarci, girano come criceti su una ruota dalla quale non hanno alcuna reale possibilità di uscire. Il grande non detto della serie è infatti che si tratta di tre miliardari ormai quasi di mezza età che invece di ritirarsi a vita privata si affannano a lavorare solamente per ottenere l’approvazione del padre. I soldi, onnipresenti, contano per loro solo in quest’ottica.

Il dramma di questi tre iper-ricchi così diversi dal pubblico di spettatori genera comunque empatia anche grazie alle tecniche registiche che alternano inquadrature curate, da film d’autore, ad altre in P.o.v. (Point of view) che sembrano lo sguardo in prospettiva di un misterioso personaggio che non vediamo mai in faccia ma è sempre seduto a tavola, in aereo o in macchina con la famiglia Roy. Sovente la testa o la spalla di qualche altro personaggio gli ostruisce parzialmente la vista e questi sguardi in prima persona, quasi spiati, sono uno degli espedienti usati per generare presenza e un senso di vicinanza alla famiglia nello spettatore. Finché ci troviamo seduti in mezzo a loro passiamo volentieri sopra al fatto che ogni tanto i Roy si facciano scappare l’idea che i non milionari – quelli cioè che li hanno reso ricchi guardando i loro canali e leggendo i loro giornali – non siano “real people”, persone reali ma una specie di razza inferiore. Tutto l’impianto della serie è in un certo senso anche un’occulta macchina di seduzione faustiana.

Dal punto di vista stilistico Succession contiene inoltre continui riferimenti a pratiche, problemi e termini tecnici che solo una minima parte degli spettatori conosce, ma questo non è importante perché dalla nostra posizione di osservatori privilegiati ci basta guardare in faccia i personaggi per capire se una “Proxy battle” è una cosa positiva o meno per la famiglia. Ci basta vedere come reagiscono quegli esseri umani, le loro espressioni, le azioni che intraprendono. Questa è forse la lezione che sarebbe più facilmente trasportabile anche nelle narrazioni, non solo televisive, italiane in cui nella maggior parte dei casi tutto è sempre appiattito e iper-spiegato di proposito, con buona pace del realismo e della connessione profonda con i personaggi e con la scena. Certo, Succession è l’apice della tv cable, cosa molto diversa da quella generalista, ciò non toglie che in epoca di streaming certe lezioni potrebbero avere un valore più ampio.

La struttura è un altro elemento caratteristico di Succession, che è una grande serie soprattutto nel primo e negli ultimi due episodi di ogni stagione. Sempre scritti personalmente da Jesse Armstrong sono episodi dove i personaggi vengono tutti concentrati in un luogo – due matrimoni e una vacanza in barca – e i destini si compiono. Nelle puntate centrali invece la serie ha un andamento scomposto che nei momenti peggiori sembra la versione alta di una soap opera, con la frequente introduzione di personaggi che sembrano importantissimi per una o due puntate e poi di fatto spariscono, senza che vengano date spiegazioni. È quindi una serie a due velocità: la parte centrale serve da accumulazione psicologica e il plot sembra quasi sfaldarsi salvo però tornare poi solidissimo nell’ultimo atto.

Anche questa struttura però cospira al senso complessivo di Succession, che è una serie che poteva molto felicemente finire con la stupenda conclusione della seconda stagione e l’avvento al potere di uno dei figli: brividi sulla pelle dello spettatore, l’archetipo si compie, c’è un nuovo leone a capo della savana. Il mito ha esaurito la sua funzione perché ha guidato gli eventi nella realtà, si è rivelato profezia e pedagogia. Senonché non è questo lo spirito del tempo e la serialità televisiva, che è una delle sue espressioni più peculiari, vuole che il gioco riprenda ricominciando ogni volta dalla casella di partenza e i personaggi rimangano sempre bloccati nei loro drammi primigeni, senza una vera catarsi, senza soluzione, senza passaggio al livello successivo. O almeno alcuni personaggi, quelli più dentro quest’epoca storica dove crescere sembra vietato.

Il tema ritorna in molte opere contemporanee, si pensi ad esempio alla divertente “Strappare lungo i bordi” di Zero Calcare dove si lascia intuire che il tradimento della promessa di un’età adulta sia in fondo un mal funzionamento del sistema, il che è in parte vero ma non è certo tutta la storia. Succession porta lo stesso discorso a un livello più alto – lo stesso problema si pone anche con mezzi economici pressoché infiniti! – e utilizzando tutta la sua pluralità di mezzi espressivi e stilistici crea un’illuminante fusione di realtà storica e rappresentazione artistica.

Non è forse del tutto un caso che un attore della serie, Nicholas Braun (il cugino Greg) sia nella realtà pressoché identico al personaggio che interpreta o che Jeremy Strong (Kendall) durante le riprese che durano mesi non esca praticamente mai dal personaggio facendo infuriare cast e maestranze. Brian Cox, l’attore che interpreta Logan, il personaggio odiato da tutti ma sulla cui ricchezza tutti vivono, ha buon gioco a citare a proposito di questa tendenza del collega le parole di Laurence Oliver quando seppe che Dustin Hoffman dovendo interpretare un uomo privato del sonno non aveva dormito per tre notti “Caro ragazzo, perché non provi a recitare?”.

Così facendo però Cox finisce per assomigliare a volta al suo personaggio. Anche in questo sta la grandezza di Succession: è uno specchio in cui è molto facile riflettersi anche se racconta le persone potenzialmente più distanti da noi.

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Dentro l’odio – Intervista

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Questa intervista è tratta da un più ampio approfondimento

di Claudia Consoli e Antonella Sbriccoli pubblicato sul sito di Mondadori

Cominciamo dal titolo per inquadrare il tuo monumentale romanzo. Quali sono secondo te le principali forme di odio del nostro tempo?

Nella nostra epoca sono finite le grandi narrazioni, le risposte univoche, le persone hanno la libertà e il peso (le due cose vanno sempre assieme) di cercare il proprio personale senso della vita. Al tempo stesso la società occidentale tende a eliminare dalla sfera della consapevolezza il dramma, la morte, il sacrificio e sembra avere un solo mandato imperativo: essere felici. Un’esortazione che arriva senza il libretto d’istruzioni, per così dire, ed è un vero lavoro dopo il lavoro, fenomeni come il turismo di massa, il ritorno del pensiero magico, l’individualismo spinto fino a una dimensione patologica sono solo alcune delle risposte diverse che vengono date a questo impegnativo – e storicamente nuovo – mandato culturale.

Questo quadro culturale si fonde con la rivoluzione digitale: internet, e in particolar modo i social network, hanno creato un nuovo piano orizzontale della comunicazione, dove chiunque può esprimersi pressoché liberamente e raggiungere potenzialmente grandi pubblici. In sostanza mezzi di comunicazione universali e nessuna gerarchia del discorso, anzi, una progressiva disgregazione del logos a favore di forme più immediate di comunicazione. Il risultato è la tensione che vediamo online, la tribalizzazione della società in bolle e clan che non comunicano fra di loro, si limitano ad odiarsi per partito preso, anzi è proprio l’automatismo nella direzione del loro odio a definire i confini del gruppo. L’esistenza di un pluralismo si dà solo all’interno di un quadro di regole condivise da tutti, regole che oggi sono sotto l’attacco del potere primordiale dei clan, la cellula primitiva della società umana che si ripresenta nella realtà digitale. In parte si tratta anche di un’illusione ottica dovuta alla pervasività dei mezzi di comunicazione digitale – in grado di illuminare tutto e moltiplicare all’infinito ogni segnale – perché complessivamente la nostra è una società dove la violenza fisica diminuisce, aumenta però – quasi esponenzialmente – quella verbale e simbolica, un avvitamento in cui estremisti e guerrieri del politically correct non fanno che rinforzarsi a vicenda. Non è detto che a un certo punto tutta questa energia che è nell’aria non si scarichi a terra.

Odio esplora a fondo alcuni temi chiave della contemporaneità, due fra tutti il modo con cui la tecnologia viene piegata ad ascoltare e misurare la vita intima degli esseri umani, e il commercio sfrenato dei dati, petrolio della rete.  Quanto credi che le persone siano davvero consapevoli di questi fenomeni? E cosa vorresti dire loro con il tuo romanzo?

 “Odio” è la biografia immaginaria, ma verosimile, di un giovane uomo con una storia da errore giudiziario alle spalle che si costruisce un posto di spicco – dopo aver iniziato la sua età adulta in tutt’altra maniera – in uno dei pochissimi settori che offrono grandi opportunità alle persone della sua generazione: il commercio di dati personali. Il libro ha molti strati, quindi il percorso professionale è solo una parte di una vicenda umana molto più complessa e articolata, ma la vera natura del suo lavoro, le sue potenzialità, sono all’inizio oscure anche allo stesso protagonista e questo dà la possibilità ai lettori di scoprirle assieme a lui. Non credo ci sia una consapevolezza diffusa su questi temi, forse dal punto di vista dei dati oggi viviamo in un periodo per certi aspetti simile a quello in cui non esisteva alcuna norma antinquinamento perché nessuno si poneva neppure il problema. In questo caso però non è detto sia possibile tornare indietro o anche solo creare delle norme efficaci: i dispositivi e le piattaforme che sorvegliano ogni istante della nostra vita sono ormai troppo pervasivi, ci servono a organizzare la vita, a lavorare, a essere raggiungibili, a stare con gli altri e ci danno in cambio importanti ricompense neurologiche in grado di generare dipendenza. Rinunciarvi del tutto in questo momento storico significherebbe condannarsi all’eremitismo, anche potendoselo permettere non è detto che sia una scelta auspicabile, in ogni caso è un prezzo enorme da pagare, il che non fa altro che evidenziare il potere smisurato dell’industria digitale.

Nel libro ci racconti che la più antica delle tecnologie umane è il capro espiatorio. Quali sembianze prende nel tuo libro e nella società che descrivi – così attuale e distopica allo stesso tempo?

Nella crisi del logos in occidente di cui parlavo prima, c’è anche la crisi di tutto l’apparato deputato a creare senso all’interno di una società: c’è scarsissima fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica, un forte declino della diffusione di religioni e ideologie unificanti. Tutto questo è accompagnato dall’emergere di una concezione post-modernista della verità secondo la quale ogni gerarchia interna alla società è il frutto esclusivo di una lotta amorale per il potere.

Si può vedere questa tendenza in azione a molti livelli, dalle università anglosassoni dove le persone non sono più considerate come individui dotati di diritti inalienabili e uguali di fronte alla legge ma come membri di questa o quella maggioranza/minoranza, gruppi che li definiscono in toto, oppure in quei movimenti populisti che denunciavano (almeno finché non sono andati loro al potere) la corruzione costitutiva di ogni politica, o, a un livello ancora più immediato, si ritrova in quei genitori che insegnano ai loro bambini che non ci sono regole ma solo la capacità di farsi rispettare, a qualsiasi costo.

Sono solo tre esempi della stessa disgregazione di un senso condiviso, un mutamento filosofico su cui si è innestata, a fare da moltiplicatore, la rivoluzione digitale che ha reso possibile il piano orizzontale del discorso di cui parlavo prima. A questo punto ci troviamo in una situazione che ricorda per alcuni aspetti – non tutti, è una tendenza, non ancora una realtà compiuta – lo stato pre-civile di guerra di tutti contro tutti, una situazione in cui manca un principio unificante.

Nell’antichità l’uomo ha sempre risolto il problema di questa tensione mimetica fra individui diversi (tutti vogliamo le stesse cose che vogliono gli altri, ma le risorse sono limitate) attraverso il principio del capro espiatorio, una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Nel tempo la vittima viene santificata e diventa una divinità, fino a quando non si perde la memoria del sacrificio e rimane solo un nuovo dio, il ricordo della violenza collettiva è cancellato. Questa è la lettura del meccanismo fondativo del capro espiatorio che faceva l’antropologo francese René Girard: De Sanctis la sposa in toto dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale.

Come autore mi interrogavo da molto tempo sulla spietatezza che mostriamo sui social, sulla tendenza che abbiamo più o meno tutti ad accanirci su persone di cui in fondo non sappiamo niente, se non uno scampolo di informazione apparentemente controverso. Quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard (ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle sue tesi nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani), ho capito di essere sulla buona strada.

Orgoglio, angoscia, tensioni irrisolte, ambizione: Marco De Sanctis, il protagonista del tuo romanzo, è talmente complesso da apparire inafferrabile. È colui che nessuno conosce ma che ci conosce tutti. Com’è nato questo personaggio? E quali sono le cose che lui odia di più?

 Marco è un personaggio articolato e soprattutto in divenire, come ogni personaggio romanzesco che si rispetti il suo punto di partenza è molto distante da quello di arrivo e anche dalle posizioni che occupa nelle varie fasi della storia.

La sua caratteristica fondamentale credo sia la voglia di applicare la propria intelligenza al mondo, anche se questo significa per lui mettersi contro tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento e contro il suo gruppo di appartenenza. Non è un personaggio che fugge dal suo tempo, un topos molto praticato nella letteratura italiana contemporanea, bensì una persona che prova a dare una chance alla sua epoca, a entrarci dentro e poi accettare le conseguenze della sua scelta. Il dispiegarsi inesorabile di queste conseguenze è il romanzo.

Per quanto riguarda quello che odia, direi le persone incapaci di mettere in discussione le proprie credenze e, ancora di più, quelle che parlano continuamente di ideali astratti e nobilissimi e poi nella pratica si comportano come dei capi tribù.

Da questo punto di vista De Sanctis è di un’onesta intellettuale che qualcuno potrebbe trovare anche disturbante, perché in genere tutti ammantiamo le nostre vite di storie e storielle che ci aiutano ad edulcorare la dura realtà delle cose, lui invece sembra essere costitutivamente incapace di questo movimento cosmetico. Lui stesso è quindi la prima vittima di questa intransigente lucidità perché la vita di uomo fuori dall’atto di raccontarsi storie è davvero molto dura. La sua teoria del capro espiatorio va letta proprio in questo senso: non è una teoria scientifica sulla realtà, ma una grande narrazione che fornisce a Marco degli appigli operativi, una mappa per un mondo che ne è privo.

Le mappe che la letteratura può ancora ambire a costruire sono esclusivamente mappe biografiche, esempi di esseri umani che qui e ora si confrontano con il loro tempo. La presa di un senso superiore, assoluto, universale, è ormai destituita di plausibilità se non come capacità di sentire il respiro del tempo e interrogarsi sugli obblighi di una biologia forgiata in milioni di anni di evoluzione, proprio là dove tutto sembra futuristico riemergono per questo istinti antichi: sono parte indelebile di noi. L’esergo al romanzo, una frase proprio di Girard, è chiaro a questo riguardo: “L’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura”. La tensione qui non è solo nei confronti del post modernismo relativista in cui si è formato intellettualmente il protagonista del romanzo e che diventa sempre più opprimente in Occidente attraverso il politically correct, ma anche verso il Mondo Nuovo in cui entra: quello della tecnologia, un ambiente che coltiva, in modo neppure tanto nascosto, l’idea di costruire un uomo radicalmente nuovo, un tentativo già provato molte volte nella storia della specie, sempre con esiti disastrosi. Questa volta però è un’operazione con qualche chance in più di riuscire perché ha dalla sua uno strumento potentissimo: la scienza. La biografia di De Sanctis – ovvero Odio – è sospesa precisamente fra queste tensioni, è il tentativo di una mappa personale: individuale, umana perché talvolta contraddittoria, in ultima analisi letteraria.

Anche la politica fa la sua comparsa tra le mille pieghe di questa storia. A volte è colei che manipola, altre viene manipolata. 
Esiste per te nel nostro futuro la speranza di coniugare politica e tecnologia in un modo sano o la tecnologia si è ormai irrimediabilmente trasformata nella principale arma di controllo politico?

La politica, come tutto il resto, si uniforma alle esigenze delle piattaforme sociali, se vuoi arrivare a un pubblico, essere premiato dall’algoritmo, devi conformarti alle loro esigenze che sono quelle di sfruttare gli istinti umani per tenere le persone più tempo possibile sul sito mentre gli viene somministrata della pubblicità. Questo significa semplificare e giocarsi alcune “monete” che in quell’ecosistema informativo funzionano meglio di altre, una di queste è sicuramente l’odio, l’altra è il suo apparente contrario, ovvero il moralismo, che poi è l’odio ricoperto da una presunta superiorità etica. Complessivamente è un sistema di incentivi che in politica finisce per premiare i cialtroni, a destra come sinistra. Oggi le parti politiche si scontrano con toni sempre più accesi, ma chi fornisce la matrice di questa nuova politica sono sempre le piattaforme. O obbedisci o non esisti e quindi non prendi voti. Lo stesso principio si può applicare a molti altri settori professionali, ma per quanto riguarda la politica ci stiamo giocando la democrazia occidentale come la conoscevamo per massimizzare i ricavi pubblicitari delle piattaforme. Questo, per me, è il principale tema politico della nostra epoca, il problema costitutivo, diciamo.

Nel libro Marco De Sanctis fa esattamente questo movimento, dopo aver lavorato per un po’ per la politica si rende conto che il vero potere oggi sta altrove, allarga lo sguardo dal dipinto alla cornice e si rende conto di quanto quest’ultima sia importante nel determinare il contenuto del quadro. Nel momento in cui il medium è diventato universale e si trova nelle tasche di chiunque, l’affermazione di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” ha assunto un grado di assolutezza sconosciuto nell’era delle emittenti radio televisive e della stampa.

Sentimenti e sessualità s’intrecciano lungo i salti temporali del romanzo e diventano a loro volta strumenti per esercitare il potere sugli altri. Esiste un esempio di amore “puro” all’interno di Odio? E, più in generale, può esistere secondo te amore slegato dalla dimensione di controllo? 

 L’amore è il principio unificante per eccellenza, è la forza di attrazione nascosta nella biologia, è il principio generatore posto al cuore della trama profonda della vita, è l’unica cosa a cui è possibile aggrapparsi in tempi di temi di Kaos, in particolar modo in un universo privato di dio l’amore rimane l’unico principio universale. Quanto al controllo, un personaggio ossessionato dal controllo in questo campo era il protagonista di Lascia stare la gallina, ma in Odio controllo e amore non sono temi che si incontrano, c’è questo amore autentico e profondo per una donna di nome Federica e una serie di incontri meramente strumentali, che giustamente De Sanctis definisce “incontri fra egoismi opposti”, che sono esattamente la cifra del sesso nel mondo post modernista, se ogni cosa è potere allora anche il sesso sarà una transizione di mercato in cui si organizza un negozio temporaneo fra quantità di potere compatibili, niente di più. In altri termini il trionfo dell’egoismo. La cosa è vista dalla prospettiva di un uomo, perché De Sanctis è un uomo ma potresti cambiare il suo punto di vista con uno femminile e non cambierebbe nulla. È una condizione trasversale. Non è un caso che solo quando De Sanctis abbandona questo genere di visione dell’esistenza che gli è stata insegnata all’università, s’immerge nella vita pratica e si apre alla possibilità che esistano delle trame immutabili nella storia della specie umana, si dischiude davanti a lui la possibilità di un amore autentico.

Decadente, ricoperta di spazzatura e dominata dai gabbiani: Roma è la quinta scenica del tuo romanzo e ci ricorda le atmosfere da fine impero. Come scrittore che rapporto hai con questa città?

Per una persona nata e cresciuta al Nord, seppur con un genitore del profondo Sud, Roma è, soprattutto all’inizio, una creatura molto sfidante, ci sono tutta una serie di cose che in altri posti sono semplicissime che a Roma diventano di una complicazione notevole, il lavoro di vivere diventa un compito estremamente impegnativo, la quantità di cose che non funzionano è talvolta annichilente. Detto questo se si cambia paradigma culturale, si rallenta il ritmo di vita, si assume un atteggiamento più fatalista è un posto dove si può anche arrivare a vivere bene, la bellezza credo che nessuno la metta in discussione e in fondo sono anche contrario all’idea che tutti debbano uniformarsi all’impersonale paradigma efficentista del capitalismo anglosassone – distruggendo millenni di storia culturale in ogni parte del mondo – e quindi se pure apprezzo molto l’organizzazione e il cooperativismo emiliano devo riconoscere che c’è una forma di resistenza allo Zeitgeist anche nel familismo romano, nell’indolenza come regola di vita. In un certo senso in Occidente Roma è la cosa più simile al residuo di un’epoca precedente, anche questo la rende una specie di organismo vivente inafferrabile che sembra davvero in grado di dare l’illusione dell’eternità. È una città che spesso ti fa arrabbiare e poi però è in grado di darti ricompense del tutto inaspettate, è la perenne eccezione alla regola. Questo è anche il motivo per cui Marco De Sanctis la sceglie come sede per la sua azienda, gli piace l’ironia della cosa ma anche quella specifica tonalità umana che di certo non potrebbe più trovare a Londra.

Sei autore di romanzi, testi teatrali, reportage e sceneggiature: come convivono nella tua esperienza le tante forme della scrittura? E ce n’è una che senti più tua?

Il romanzo, senza dubbio. Le altre forme di scrittura che citi possono essere divertenti e appaganti, servono ad acquisire informazioni non solo sulle cose ma anche sugli uomini e a sviluppare le proprie capacità ma il romanzo è la forma più completa dove la mia ricerca si può esprimere più a fondo e senza mediazioni.

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ODIO è su:

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I miti non moriranno mai, la letteratura si vedrà.

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Questo pezzo è apparso su Domani il 24 maggio e fa parte del dibattito Su Contro l’impegno” di Walter Siti (Rizzoli)- Illustrazione di Doriano Strologo. 

“Contro l’impegno” di Walter Siti è un saggio colto e profondo che risulta, non senza una certa ironia, più “necessario” di tanti libri che vengono presentati come cure per questa o quella patologia sociale. Essendo sostanzialmente una raccolta di interventi (editi e inediti) non è un libro particolarmente sistematico ma questo non significa che manchi di una sua coerenza, di un suo spirito unitario. Personalmente indentificherei questa unità non tanto con la polemica contenuta nel titolo – quella contro l’impegno – quanto con quella più ampia contro il paradigma dell’efficacia – immediata, commerciale, di corto respiro – come criterio per giudicare un’opera letteraria. L’efficacia va quindi qui intesa non solo come politica ma anche, e forse soprattutto, come di mercato e neurologica, nel senso cioè dell’essere in grado di fornire rapide ricompense cerebrali al lettore, soprattutto ricompense positive, come quelle che scaturiscono dalla sensazione di appartenenza a un gruppo, dalla consapevolezza di poter vantare una netta superiorità morale sul resto del mondo o dal postulare che la vita sia tutto sommato bella e meritevole di essere vissuta, forse persino potenzialmente giusta. Il distinguo non è banale e nella prima parte del suo libro Siti compie quindi un’analisi delle condizioni di ricezione delle opere nel nostro tempo storico, stigmatizzando l’approccio frettoloso che deriva dal mutato ecosistema informativo – oggi istantaneo, parcellizzato, costitutivamente superficiale ed emotivo – , un panorama in cui i tempi lunghi e le ricompense differite della letteratura appaiono anacronistici, cosi come sembra fuori sincrono la richiesta dei romanzi letterari di essere letti e assimilati nella loro interezza, forse persino macerati nel tempo e rifrequentati durante le diverse fasi di una vita.

Siti non ne parla ma sarebbe stata interessante anche qualche parola sulla letteratura da incipit, libri cioè che diventano oggetti posizionali (da esibire in salotto, da citare in conversazioni) sulla base delle prime pagine, le uniche, sembra, che i più abbiano ormai il tempo di leggere, tanto che una parte importante del mercato editoriale pare ormai essersi orientato oltre che verso i libri brevi – di rapida e indolore lettura – anche alla ricerca di grandi incipit forse più che di grandi libri (si pensi a Ohio di Stephen Markley, romanzo con uno splendido primo capitolo che si rivela poi decisamente fuori scala rispetto al resto del libro). Siti parla in compenso della sparizione dei finali e del declino della “spina dorsale” nelle opere letterarie “alte”, confinate alla frammentazione totale o alla non-selezione dell’oggetto narrativo (come nel ciclo “La mia lotta” di Karl Ove Knausgård).

Il discorso è molto interessante e potenzialmente fecondo ma con una scelta non scontata Siti preferisce dedicarsi ad un’analisi minuziosa di autori che sono più pop che letterari come Saviano, D’Avenia o Catozzella e prendere sul serio i saggi di Michela Murgia. D’altronde è lì che si annida il tentativo contemporaneo, spesso goffo, di creare una nuova mitologia su basi ideologiche, un’operazione che è precisamente il contrario della letteratura, se per letteratura intendiamo, come sembra fare Siti, un’indagine profonda sull’uomo, una ricerca capace di andare oltre gli schieramenti sociali e le appartenenze contingenti, disinteressata, cioè, a marcare continuamente la sua ortodossia politica e orientata piuttosto ad immergersi nella polisemia dei significati, abbracciare la contraddizione insita nello stare al mondo.

Il confronto che Siti imbastisce è dettagliato e civilissimo, come già detto prende sul serio anche cose su cui forse non si farebbe del tutto peccato a coltivare qualche dubbio, questo però rende “Contro l’impegno” un libro piacevole in questo tempo di contrapposizioni frontali e odi efferati. Viene comunque da chiedersi se sia veramente necessario tutto quell’inchiostro per dimostrare che Saviano e la Murgia non fanno letteratura, Saviano per altro non fa mistero di sapere bene come il percorso da lui scelto sia un altro, tanto da scriverlo in uno dei suoi libri. Ci possono essere due risposte a questa domanda, la prima è che il mondo della nuova mitologia – il pop engagé – sembra ormai da qualche anno mangiarsi tutto in campo editoriale, stimolando perciò la necessità di una riflessione. L’industria ha sdoganato il midcult celebrando come grandi opere romanzi dagli stili semplici, dalle strutture basiche e con impianti moralmente lineari (i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e l’immancabile ricomposizione positiva finale), libri che raramente, per non dire mai, aprono a verità profonde e sconvenienti. Un’elevazione di grado di romanzi prima considerati dignitose opere di intrattenimento che ha rianimato il mercato dei libri “da premio”, allineando però sostanzialmente tutto verso il basso a discapito dei romanzi letterari che pure con qualche fatica anche in Italia continuano ad esistere.

Il fenomeno è storico e va di pari passo con la scomparsa della critica (oggi le recensioni le fanno soprattutto gli scrittori dicendosi a vicenda quanto sono bravi, altra cosa che non sfugge a Siti) e con la semplificazione obbligatoria in ogni comparto culturale, a partire dall’istruzione scolastica; una tendenza che risponde alle esigenze di una nuova fase della società: dalla società borghese dei giornali si è passati attraverso quella di massa (mediata dalla tv) e si è ormai stabilmente entrati in quella degli sciami digitali dove l’opinione si fa con telefoni e social network. I cittadini di quest’epoca sono produttori e consumatori di informazioni e coltivano l’illusione di muoversi indipendentemente, osservati però dalla giusta distanza mostrano i meccanismi omeostatici di un unico organismo vivente, un organismo perennemente ascoltato e organizzato dalle multinazionali del digitale. Uso metafore di carattere animale perché in un panorama di questo tipo è difficile continuare a mantenere l’aura di sacralità che l’uomo in quanto uomo ha avuto in altre epoche storiche, i concetti precedenti risultano qui operativamente superati, troppa è la misurabilità, eccessiva la predicibilità dei comportamenti. In un ecosistema di questo tipo, che premia l’identificazione, la tribalità, l’immediatezza, la rissa e il frammento, la letteratura ha poca cittadinanza.

La parte del saggio che viviseziona il pop editoriale italiano mi ha fatto però anche tornare in mente la scena di Troppi Paradisi in cui Siti confessa di non riuscire a sopportare quando Camilleri e Covatta vengono trattati come dei re al Maurizio Costanzo show. Forse sbaglio ma questa mi sembra la seconda motivazione, nascosta e più letteraria, di questa sezione di libro, la constatazione amara di una prospettiva di gloria che per il letterato appare ormai perduta. Ci sono stati tempi che ponevano sfide ben peggiori alla vita di uno scrittore, ad esempio si poteva rischiare di finire in carcere, tuttavia la prospettiva di una gloria transgenerazionale permaneva, oggi invece questa speranza appare declinante. I motivi mi sembrano almeno due: 1. Parafrasando Sciascia si possono scrivere libri per il futuro, ma bisogna vedere se il futuro avrà ancora dei lettori, in particolare se ne avrà di interessati ai libri oggetto di questa riflessione. C’è qualche ragione di dubitarne, ma staremo a vedere. 2. Siamo diventati materialisti e scientisti e della gloria da morti, la gloria cioè di cui non possiamo fare in alcun modo esperienza diretta, ci interessa poco. Ci troviamo, mi sembra, in un vicolo cieco da cui si può uscire solamente con un atto di fede nei confronti del valore della letteratura, considerandola cioè più forte, sul lungo periodo, dell’apparato ideologico-capitalistico che oggi si trova benissimo con il foraggiare il mercato di romanzi banali ma moralmente edificanti, anche se questo significa talvolta fare uso pornografico delle disgrazie altrui.

Ricordo ad esempio ancora con un certo imbarazzo uno spettacolo teatrale a cui assistetti un paio di anni fa assieme a tanti giovani progressisti e volenterosi in un bellissimo chiostro di una città d’arte del Sud: un attore milanese cinquantenne si produsse in un monologo in prima persona sulla storia di un bambino annegato al largo di Lampedusa. Durò un’ora, di cui una decina di minuti dedicati al momento in cui il bambino, perso nei marosi, smetteva infine di respirare. Il risultato fu grottesco, grottesco alla maniera della peggior pornografia (esiste anche una pornografia piuttosto gioiosa) perché con ogni evidenza non c’era quello che Nassim Taleb chiamerebbe skin in the game, la distanza era troppa e non necessariamente perché l’attore era un milanese cinquantenne (come vorrebbero i teorici del politicamente corretto nell’arte) ma perché lo stile scelto preferiva smaccatamente lo scandalismo all’empatia, la denuncia alla dimensione tragica della vicenda, indugiava nel lirismo e nel patetismo di maniera facendo di una persona un feticcio, spersonalizzava cioè un essere umano per consegnare alla platea una moneta da spendere al mercato della politica. Lo stile, come ricorda estesamente Siti, è sostanza, se si ha il tempo, la voglia e la competenza per prenderlo sul serio. Siti dedica a questa deriva pornografica-emotiva uno degli ultimi capitoli del libro, quello incentrato sull’icona pop Barbara D’Urso, una parte del libro dove si constata l’avvicinamento ormai evidente fra tv generalista e letteratura midcult.

Quello di cui Siti non parla è invece il meccanismo di istituzionalizzazione del dissenso, il fatto cioè che la sostanziale compattezza ideologica dell’industria editoriale e culturale non gli impedisca di rappresentarsi sempre come contro. Insomma la differenza la fanno gli insiemi: la tribù dei Perbene dentro la più grande tribù del Popolo Bieco e più o meno questo è quanto, un campionato a squadre chiuse, dove c’è l’Ordine da un lato e il Dissenso dall’altro e i confini del Dissenso sono perfino più rigidi di quelli dell’Ordine. Un assetto di questo genere è capace di riassorbire e marginalizzare ogni mancata ortodossia. È qui, credo, che incominciano un po’ a tremare i polsi e s’intuisce qualcosa di davvero sinistro: mentre un tempo l’artista – e lo scrittore non faceva eccezione – quando decideva di sfidare il corpo costituito della società lo faceva a suo rischio e pericolo, prefigurando talvolta con il suo lavoro l’avvento di una morale futura, oggi una determinata morale ribelle è data per costituita una volta per tutte e si è fatta industria, dunque regola, dunque sistema, e rappresenta un cammino sicuro. Lo svantaggio naturalmente è che di ribelle rimane giusto la parola.

Denunciare la discriminazione degli omosessuali negli anni sessanta aveva un costo pesantissimo sotto ogni punto di vista, oggi si paga ancora nelle periferie ma nel mondo della cultura è al contrario un buon viatico per premi e riconoscimenti. Più in generale l’impegno politico nelle forme previste è una condicio sine qua non per l’appartenenza alla buona società e gli incentivi sui grandi numeri contano, specie in un popolo abituato a fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri e pieno di artisti ribelli pronti a compiacersi del saluto dell’assessore alla cultura. Parliamo in fondo di un ambiente in cui da un anno tutti dicono, considerandola una cosa perfettamente normale, che il prossimo premio Strega andrà a una donna, non a questo o quel libro di una donna ma a una donna in quanto donna. Chissà, forse non andrà così, perché alla fine l’establishment letterario tende a sopravvalutare il proprio potere, non di meno è un dato inquietante. Ora, questo mi sembra un oggetto d’elezione per un possibile lavoro letterario, un settore della società, piccolo ma strategico, dove l’ideologismo ha raggiunto rapidamente vette impensabili soltanto dieci o cinque anni fa. Perché non indagare questo? Perché è scomodo e perché non è cosa da persone per bene. Al tempo stesso però mi sembra un oggetto esattamente letterario, così come sarà letterario tornare a occuparsi di minoranze quando l’ondata di destra che si profila all’orizzonte sommergerà il mondo del politicamente corretto. Il punto è che il lavoro letterario come lo descrive Siti, e su questo non posso che concordare, è necessariamente ingrato, il suo compito non è quello di costruire miti, stabilire regole di convivenza, far progredire l’uomo come collettività, quanto piuttosto permettergli di conoscersi nei suoi aspetti indicibili, nascosti, inaspettati, non necessariamente truci o malvagi, ma di certo avulsi alla logica del gruppo.

Forse diversamente da Siti credo che la letteratura di questo tipo sia sostanzialmente contro natura – coltivo un’idea scientista della natura che forse a lui non piacerebbe – perché le grandi narrazioni che dividono il mondo in buoni e cattivi sono scheletri evolutivi, mappe di significato inevitabili quanto la vista, la capacità di movimento e altri attributi fisici, e per questo motivo, per il loro innatismo cioè, vinceranno sempre. In un sistema che si efficentizza tecnologicamente vinceranno poi ancora di più. Tutti motivi per cui i tentativi di nuove genesi morali, che siano raffinatissime (Nietzsche) o a buon mercato (Murgia), sono con ogni probabilità destinate a fallire, mentre la mitologia non morirà mai, né morirà il tribalismo e tantomeno le storie o i romanzi di impianto lineare – dati per finiti mille volte ma tecnicamente immortali. La letteratura più profonda invece è sempre uno stato di eccezione, e, esattamente come la scienza ma in una direzione diversa, serve a superare per un breve illusorio momento il nostro mandato genetico pur partendo da esso (non disponiamo infatti di altre basi da cui muovere). Quando il movimento riesce si crea un qualcosa di sublime, trascendente e raro ma per definizione anche passeggero. Stupirsi un po’ che in un tempo storico come il nostro questa forma d’arte lenta, faticosa, esistenziale e preziosissima non domini le classifiche è il limite del libro di Siti, il suo pregio, invece, è chiedersi se in futuro un’attività con questi tratti continuerà a sopravvivere. La risposta non mi sembra scontata.

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L’omelia e il buon selvaggio

Come sopravvivere alle infinite introduzioni dei festival culturali

(articolo apparso originariamente su Il Foglio del 26/08/2018)

 

L’estate non sarà più tempo di letture, se non delle chat su Whatsapp e delle didascalie alle foto autocelebrative su Facebook, ma rimane senz’altro tempo di festival, il rito transumante che compie il pachiderma dell’alfabetizzazione per andare a morire nel cimitero dell’evento. A chiunque capiti di prendervi parte, da invitato, da moderatore, da spettatore, da spillatore di birre, da vicino di casa insonne, non è permesso di sfuggire ad una cosa su tutte: l’introduzione infinita. In un mondo ideale del film che andiamo a vedere o del libro di cui sentiremmo dibattere ci basterebbe conoscere il titolo e, forse, ricevere qualche ridottissima informazione biografica sull’autore. Per il resto vorremmo fidarci a scatola chiusa del gusto del direttore artistico o della comune di cervelli che si è spremuta lungamente le meningi durante i mesi invernali per preparare il programma. Altrimenti, si suppone, non essendo noi degli imbecilli, non saremmo lì. Nell’FCI (Festival Culturale Italiano) è invece obbligatoria un’introduzione della durata minima di venti minuti, meglio se quaranta e con punte mitologiche, vagamente fantozziane, di un’ora abbondante. L’introduzione da festival ha una struttura fatta di caposaldi immutabili, primo fra tutti il saluto commosso e riconoscente alle autorità. S’inizia dal Comune –spesso microscopico ma i cui assessori non hanno comunque più quel grado di ingenuità che renderebbe il tutto un po’ meno stucchevole e più leggero – passando poi per la provincia fino alla regione. In genere questi ultimi sono quelli che mettono più soldi, quindi sono un po’ i padroni della baracca perché l’FCI per definizione non può produrre denaro, deve solo bruciarne, altrimenti rischia di perdere il valore culturale. Ho sentito con le mie orecchie in un recente FCI di medie dimensioni una giovane organizzatrice chiedere scusa alla platea subito dopo aver usato l’espressione “mercato del cinema”. Unica eccezione ai ringraziamenti per i contributi pubblici, un’esclusione peraltro significativa, si dà in presenza di fondi europei, un’eventualità in cui Bruxelles non si nomina mai, pare infatti che l’oscura funzionaria polacca che appone le ceralacche sulle vittorie dei bandi non venga mai alle cene dopo le proiezioni e i dibattiti. Esauriti i saluti alle autorità, ai vips in sala e conclusi anche i ringraziamenti incrociati – con applausi doverosi – fra organizzatori, si giunge al nucleo senziente dell’introduzione: il discorso sulla necessità & sui fini. Il sottointeso qui è che raccontare una storia sugli esseri umani e i loro strani comportamenti sia da sola una motivazione un po’ troppo triviale per un’opera che aspiri a trovare posto all’interno di un FCI, e, diciamocelo, sarebbe anche un po’ poco per noi che siamo qui, visto che il PCI (pubblico culturale italiano) cerca sì intrattenimento ma con i punti di rilevanza sociale ben sottolineati e numerati come negli specchietti sinottici a fine capitolo nei sussidiari. Si passa quindi a illustrare come l’opera che seguirà sia di assoluta necessità, una sorta di farmaco sperimentale e prezioso per curare un determinato male del corpo sociale. Fra le patologie più gettonate: disumanità, indifferenza, ignoranza, dominio del neoliberismo. Talvolta si fa più genericamente appello ad intere categorie, quindi giovani disoccupati, esclusi dalla società, afflitti da solitudine, anziani che non hanno diritto allo sconto sui trasporti pubblici. Anche volendo per un momento prendere per buono il dogma dell’artista ingegnere e meccanico sociale la cui opera abbia un solo livello di lettura – quello a favore del miglioramento del welfare – il problema è che la complessità e gli aspetti peculiari della società contemporanea potranno talvolta entrare nelle opere (soprattutto in quelle straniere) ma mai e sotto nessuna circostanza nell’introduzione. Il suo cuore pulsante, l’epicentro retorico, è tarato infatti su di un’immagine della società italiana che viene presa di peso dagli anni sessanta, per cui, ad esempio, se siamo in provincia i giovani “non hanno occasione di vedere cose diverse da quelle che vanno in televisione”, il tutto detto mentre in platea un sedicenne annoiato segue in diretta su YouTube lo stretching di Cristiano Ronaldo in un resort della Grecia occidentale. E tuttavia questo sfasamento cronologico con la realtà fornisce un indizio prezioso all’osservatore laico che s’interroghi, durante la lunga ed estenuante attesa, sulla natura dello spettacolo a cui sta assistendo. Se negli elementi fra di loro apparentemente in contrasto come i propositi rivoluzionari e le pubbliche riverenze alle autorità si ritrovano i tratti tipici e pressoché eterni della borghesia italiana, mano a mano che il discorso procede senza avvicinarsi mai, novello Achille di Zenone, alla fine, un’illuminazione coglie prima o poi il paziente spettatore: sta assistendo ad un’omelia. Tutti quegli anni a denunciare le malefatte della chiesa santa cattolica e apostolica salvo poi tradire, attraverso un’imitazione delle forme, un istinto naturale, quasi biologico, al ritorno ai riti di un’infanzia per bene. E così l’intellettuale da FCI quando si produce nella sua inesauribile omelia introduttiva ritorna inconsciamente alle origini tanto criticate –la messa della domenica a cui lo portavano i genitori –, forme ancora vive della sua socialità perché mai abiurate davvero, essendo l’illuminismo dalle nostre parti roba appunto da schema sinottico che si manda a memoria per non capirlo. L’omelia dell’FCI pare quindi mandare – attraverso la struttura, i gesti e la trascendenza immutabile del rito – il più alberto sordesco dei messaggi: gli italiani so’ tutti uguali. Conclusione un po’ troppo severa nei confronti del Paese, che forse – si sottolinea però l’avverbio – non la merita. L’osservatore ormai sull’orlo del coma indotto dal potente anestetico vocale propone quindi una seconda direzione d’indagine, una domanda utile ad individuare almeno una differenza. Perché tutto questo indulgere, nelle omelie degli FCI, sui popoli lontani, quando nella platea ci sarà pure abbondanza di lini svolazzanti e di colori etnici ma le pelli sono bianche quanto quelle di una riunione del Ku Klux Clan? Ed ecco che emerge il problema più recente di questo sottogenere oratorio: il pubblico di riferimento. Perché vanno bene tutte le categorie di cui sopra ma serve anche una massa a cui rivolgersi, un branco compatto e indistinto di diseredati di buoni sentimenti a cui additare tutti quei mali più specifici e di nicchia. Serve insomma un popolo da dirigere. Il problema è che se parliamo di platee, al di fuori dell’FCI – che per definizione è quasi un guardarsi negli occhi fra addetti ai lavori, un predicare ai convertiti –per questo genere di omelia ormai c’è quasi il deserto. Il vecchio proletariato ha alzato la testa se non socialmente quanto meno nella percezione – fondata o meno non è questo il punto – di sé. Forse deve badare al lavoro, alla famiglia, o ha la timeline Instagram delle colleghe da scrollare e le vacanze a Gallipoli da pianificare per portare a casa un po’ di selfie di qualità su cui campare non dico tutto l’inverno ma almeno fino a Natale. Chissà. Cos’abbia di meglio da fare rimane in fondo un mistero ma appare evidente come non abbia più né voglia né tempo di ascoltare pazientemente i sermoni di chi tratteggia un sole dell’avvenire che non arriva mai se non per chi lo dipinge. Rimangono al novello parroco del progresso le bolle dei lavoratori dei media o di quella che un tempo si sarebbe chiamata l’industria culturale, assieme a dei giornali sempre meno letti. Ma anche qui si rischia di non provare quel tipo di sensazione oceanica che solo la propria voce che crepita da degli altoparlanti su una piazza colma di gente dove le bandiere garriscono in un silenzio assorto, rapito, può garantire. Certo per raggiungere le masse made in Italy ci sarebbero anche i frequentatissimi social network ma lì la battaglia fra messaggi tagliati con l’accetta la vincono inevitabilmente gli altri. Fra ruspe e magliette rosse vincono sempre le ruspe, la piattaforma tecnologia è pensata così, per massimizzare il rogo dei capri espiatori. Ecco quindi un problema di difficile soluzione, pensa il paziente spettatore che nell’attesa della proiezione ormai lambisce i sempre più attraenti confini del sonno REM: dove trovare un popolo da difendere e dirigere con mano gentile ma ferma e che sia al tempo stesso sufficientemente educato da non morderla, quella mano? Un indizio su dove sia diretta la ricerca ce lo dà, fra gli altri, il magistrale articolo su Repubblica (genere contiguo e simbiotico all’omelia da FCI) di Tonia Mastrobuoni a proposito della polemica sul calciatore di origine turca özil che ha chiamato Erdogan “il mio presidente” e in seguito alle proteste ha abbandonato la nazionale tedesca. Commentando il fatto che i turchi tedeschi hanno votato in massa per Erdogan la giornalista scrive: “Non è una schizofrenia di chi gode quotidianamente delle libertà di una democrazia parlamentare funzionante e sceglie nel segreto dell’urna un autocrate liberticida e – in questo caso, davvero – parafascista. E’ (sic) il grido di protesta di una minoranza importante che continua a sentirsi minoranza reietta e riscopre con Erdogan un presunto orgoglio nazionale andato perduto.” .

Così, molto semplicemente e molto univocamente. Tedeschi democratici ma cattivoni, turchi filo fascisti certo, ma per dispetto. Il retore da FCI non conoscerà più con l’esattezza millimetrica di un tempo il volere delle masse autoctone ma con lo stesso grado di unilateralità e di sicumera ora sente di conoscere quello delle masse straniere, che dal canto loro sono sufficientemente lontane dal non sentire il bisogno di rispondere a questa privazione di soggettività con una pernacchia. In discorsi di questo tipo si ritrova tutta la forza spersonalizzante del mito del buon selvaggio, vero e proprio sostituto contemporaneo del proletario portatore di ogni virtù e di nessuna macchia, quindi inumano. Per altro è la perfetta antitesi del cattivo selvaggio, anch’esso altrettanto inautentico, un rovesciamento uguale e contrario della retorica dello straniero inevitabilmente barbaro e stupratore, con l’aggravante che si tratta del fallimento di un’alternativa proprio là dove non si fa altro che parlare di diversità. Le cose naturalmente sono molto più complesse e fortunatamente nessun popolo – tantomeno quello turco – si fa comprimere dentro analisi così sommarie e ideologiche. C’è chi avrà votato Erdogan per questo motivo e chi per tutt’altro, ovviamente, e se proprio esistesse qualcuno in grado di conoscere così nel dettaglio le motivazioni dei voti alle elezioni si tratterebbe probabilmente di Google e degli altri signori dei big data, ma questo, decisamente, non è materiale da FCI. Quello che conta, l’aspetto più prezioso, è che però nessuno si prenderà la briga di rispondere ad affermazioni del genere perché tutto sommato i turchi tedeschi hanno altri problemi, altri interessi, altri dibattiti da seguire. Il che li rende dei buoni selvaggi ideali, perfetti come altri popoli lontani anche per l’inserimento nell’omelia da FCI. A questo punto lo spettatore ormai ronfante è visitato in sogno da un’ulteriore problema, questa volta in prospettiva: il genere retorico dell’omelia si avvantaggia di grandi opposizioni, di confini netti e di orizzonti da tracciare, necessita soprattutto del silenzio raccolto e ossequioso della platea. Si potrebbero quindi presentare delle complicazioni quando in futuro si realizzerà anche in Italia l’integrazione che tutti giustamente auspichiamo e il selvaggio, da idealtipico elemento muto del paesaggio, diventerà un cittadino con diritto di parola e sarà impossibile per l’oratore decidere cosa pensa, lui e i milioni che si suppongono uguali a lui come dei replicanti, sulla base di una rapida annusata dell’aria fuori dalla finestra. “Sento odore di dispetto, in milioni!” non funzionerà granché, allora. Ma stiamo parlando di un tempo molto lontano, diciamo almeno 2-3000 omelie introduttive di distanza (OID). Ora però un po’ di silenzio, il film sta già per iniziare.

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La tribù online

Questo articolo è apparso su Il Foglio il 15.08.2020

“Il Ramo d’oro” di James Frazer contiene, fra le tante, anche le vicende di un’antica tribù africana presso la quale, nel momento stesso in cui veniva nominato, il re fuggiva dal villaggio e doveva venire ricatturato da un gruppo di guerrieri e messo a forza sul trono. La scena ha un che di comico se si considera quanti sforzi sono stati fatti in ogni tempo dagli uomini proprio per salire sui troni, eppure quella fuga dal potere – che Frazer svela poi avere motivazioni piuttosto solide – ha nonostante tutto un che di credibile, di sinistramente sensato: cela l’intuizione di una verità nascosta, come spesso accade con le cose capaci di farci ridere.

Il periodo in cui ho letto per la prima volta questa piccola storia era lo stesso in cui Matteo Renzi aveva da poco perso quel referendum costituzionale che inizialmente doveva essergli era sembrato un goal a porta vuota (proporre agli italiani un taglio del numero dei parlamentari? Quale esito più scontato?) salvo poi diventare un incubo nel momento in cui lui stesso lo aveva trasformato in un test sulla sua persona. Un errore diventato il primo atto di quell’arco declinante che ha mutato il suo personaggio pubblico da uomo della provvidenza a una sorta di villain per antonomasia, quasi compiaciuto del nuovo ruolo marginale e risentito.

Eppure le colpe potrebbero – pensavo – non essere tutte di Renzi. Soprattutto, avendo scritto di lui mi era capitato di osservarlo da distanza ravvicinata e lo avevo visto letteralmente braccato dai suoi sostenitori. Un entusiasmo che sembrava a quel punto il perfetto contraltare dell’odio che era in grado di attirare nella nuova fase crepuscolare della sua carriera. Certo di uomini che promettono molto e finiscono poi schiacciati dal peso delle aspettative disattese è piena la storia della politica – non solo recente – ma mi rimaneva l’impressione che nei cicli sempre più brevi che portano i politici dai vertici all’ ignominia e all’irrilevanza, ci fosse una componente eterna – antica, primordiale – e una che invece era diretta espressione della tecnologia digitale contemporanea.

In poche parole Internet, e in particolare i social network, pur espressione della società della scienza, sono anche degli straordinari amplificatori tribali, ci riportano cioè alle origini della civiltà umana, quando per fondare le nostre comunità sacrificavamo capri espiatori, come ha sostenuto nel suo lavoro l’antropologo francese René Girard. È da questo nucleo di riflessioni che è nato Odio, da questo e dall’aver scoperto che uno dei primi finanziatori privati in Facebook è stato Peter Thiel, allievo proprio di Girard a Stanford e suo seguace convinto, tanto da aver finanziato Imitatio, una fondazione di studi a lui dedicata.

In molte interviste Thiel ha ribadito l’importanza di Girard nella sua formazione e nel libro “Zero to one” ha declinato in chiave aziendalista molte idee del suo maestro. Facebook è un’incarnazione digitale sorprendentemente precisa dei due principi cardine del pensiero di Girard: l’imitazione mimetica e il sacrificio del capro espiatorio. Imitazione mimetica significa – in soldoni – che finiamo sempre per desiderare quello che vogliono le persone che ci circondano, in particolar modo il gruppo dei nostri pari. Come ricostruisce perfettamente Luca Ricolfi ne “La società signorile di massa”, l’élite urbana sogna ad esempio un tipo di lusso studiatamente informale e attento a una costruttissima autenticità – ricerca cioè l’esperienza – la periferia è invece ancora attratta dal possesso materiale e da una ricchezza sfiorata soltanto occasionalmente.

Il punto qui comunque è che non si desidera mai nel vuoto, ma sempre all’interno del proprio contesto sociale, e, soprattutto, che visto che le risorse sono per definizione finite e distribuite in maniera diseguale questo concentrarsi dei desideri sugli stessi obbiettivi genera sempre un certo grado di tensione, di risentimento, di invidia. Nella società primordiale questo tipo di reciprocità negativa sfocia in una sorta di guerra di tutti contro tutti, un piano orizzontale risolto dal sacrificio di un capro espiatorio che pagando per i peccati di tutti permette la pacificazione della società e l’avvento di una gerarchia stabilizzante.

L’attuale ecosistema informativo digitale è orizzontale per definizione dato che tutti, ma proprio tutti, abbiamo in tasca uno smartphone connesso a internet e ricorda molto da vicino proprio lo stato di reciprocità negativa. Al di fuori della rete – nel mondo fisico – permane però intatto l’ordine dettato dalla gerarchia piramidale dall’economia reale. I due piani – quello dell’informazione e quello dell’economia – confliggono perciò in questa sorta di asimmetria fondamentale creando precisamente quella tensione pre-temporalesca che percepiamo ogni giorno, la sensazione cioè che nonostante la società sia ancora in grado di assolvere con una certa efficienza ai suoi compiti fondamentali, una deflagrazione animata da ragioni che appaiono tanto oscure quanto inesorabili ci sembri sempre più imminente.

Cliccare sull’app di Facebook sul mio telefono assomiglia ogni giorno di più all’aprire il portellone di un forno a legna avviato a pieno regime, con la differenza che mentre l’ardere dei tronchi è in grado di generare geometrie imprevedibili, eleganti, ipnotiche, l’odio tribale che brucia su Facebook è quanto di più scontato e meccanico si possa immaginare. Quand’è stata l’ultima volta che avete letto una femminista attaccare l’atteggiamento nei confronti delle donne non del fantomatico maschio bianco occidentale paternalista ma di un estremista islamico? Esatto, mai. Quante volte avete sentito un leghista lamentarsi della minaccia alla sovranità italiana rappresentata non dagli immigrati africani ma del governo cinese? Realisticamente la risposta anche in questo caso è zero. A ognuno secondo la sua bolla, ossessioni, omissioni e contraddizioni incluse, anche se talvolta verrebbe da dire soprattutto omissioni e contraddizioni perché è proprio quando si decide di chiudere gli occhi di fronte a un segnale incoerente che più di tutto si certifica la propria appartenenza al gruppo.

Personalmente abito – abbastanza involontariamente visto che raramente faccio richieste di amicizia, mi limito a rispondere a quelle che ricevo – una bolla digitale composta in larga parte da 30-40enni che fanno, o tentano di fare, professioni creative. Principalmente giornalisti, scrittori, ma non solo. Di questi, una minoranza appare effettivamente sovra-educata mentre la maggioranza sembra in possesso giusto di quella manciata di nozioni che vengono ritenute sufficienti a sentirsi intellettualmente superiori nei confronti del resto della popolazione. Complice anche la transizione dell’industria culturale all’era digitale, la stragrande maggioranza della mia bolla rilascia informazioni che la fanno pensare trasversalmente sottoccupata, il più delle volte malpagata, mediamente rancorosa.

In genere appartiene per meriti famigliari alla piccola-media borghesia e affianca a salari incerti rendite sufficienti giusto a una vita di mero galleggiamento, un’esistenza che con l’avanzare dell’età appare sempre meno adatta; vede insomma davanti a sé lo spettro del declassamento sociale ma l’idea di cambiare settore occupazionale non la sfiora neppure perché il posizionamento di immagine gli appare incommensurabilmente più prezioso di quello economico. Tanto è malleabile dal punto di vista salariale tanto è intransigente dal punto di vista ideologico: è largamente ossessionata dalla correttezza politica, monolitica sui più classici assiomi antirazzisti (ogni forma di regolamentazione dell’immigrazione è, per definizione, xenofobia), si schiera sempre e comunque dalla parte delle minoranze. Nulla nella mia bolla sembra capace di rilassare i nervi scossi quanto un post adirato contro Salvini e, ultimamente, la Meloni.

Il meccanismo è talmente automatico che si potrebbe usare uno di quei generatori automatici di titoli che proprio la mia bolla dedica a nemici storici come il giornale Libero. Intendiamoci, so bene quanto può essere rilassante questo genere di sfogo perché vi ho ceduto spesso a mia volta, è, per l’appunto, parte del fascino del capro espiatorio: esternalizzare il male che abbiamo dentro verso qualcuno che potrebbe aver fatto qualcosa per meritarselo almeno un po’. Crepe nella mia personale bolla digitale sono rappresentate da amici d’infanzia e adolescenza, ex compagni di scuola o di basket, parenti, tifosi della curva dell’hockey club Bolzano che mi seguono per via di un documentario che ho girato sulla squadra. Qui la percentuale di gente che se non lavora non mangia sale in maniera significativa e in questo segmento vanno molto più forte gli immigrati visti come problema, le teorie del complotto sul 5g e i cuccioli di tutte le razze animali addomesticate. Più di ogni altra cosa però si assiste alla pubblicazione di scampoli di vita privata, di momenti familiari, di gite e di ferie. Nessuno qui credo abbia mai sentito parlare di Calenda.

L’ossessione di ribattere a ogni affermazione di un leader politico rimane comunque molto più forte nella parte sinistra della bolla, che, per inciso, sembra contenere parecchie persone passano tutta la vita a combattere guerre online. Le possibilità che un giorno, per uno strano allineamento dei pianeti, qualcuno nell’area sinistra della mia bolla trovi non del tutto deprecabile una singola affermazione della Meloni appare anche in questo caso uguale a zero, il che statisticamente è significativo della scarsa onestà intellettuale impiegata nel giudizio perché un paio di volte al giorno anche un orologio rotto segna l’ora giusta. Non ho dubbi che lo stesso valga in altre bolle a me precluse per un’affermazione qualsiasi della Boldrini.

Quello che sto dicendo è che sui social il dialogo è un’illusione, quello che facciamo è: 1. Segnalare le cose bellissime che riempiono la nostra vita (imitazione mimetica) 2. Prendercela con qualcuno a partito preso per sentirci meglio (sacrificio del capro espiatorio). E lo facciamo a partito preso anche quando nel merito potremmo avere dalla nostra qualche ragione, non è questo però che ci muove: quello che ci mette in azione in questo tipo di piattaforma digitale è ribadire l’appartenenza alla nostra tribù, quella dell’Italia che si sente migliore oppure quella dell’Italia che si sente dimenticata. Il meccanismo è tribale, il dibattito non esiste, è una messa in scena.

L’aspetto grottesco delle echo-chamber politiche è esattamente questo: milioni di persone si affannano a esprimere i loro pareri politici ma non fanno altro che farsi la conta dei like a vicenda mentre predicano ai convertiti. Al di fuori di chi è già d’accordo non c’è infatti nessuno ad ascoltare. Una parte del Paese pensa che l’altra viva in una specie di medioevo e l’altra pensa che la prima abbia perso del tutto il contatto con la realtà e sia intossicata dall’ideologia. Le due parti non si parlano, si disprezzano. Ognuna delle due parti deve sfogare su qualche capro espiatorio la tensione che si genera all’interno di quelle camere stagne dove nessuna voce suona bene quanto la propria.

Non vorrei dare però l’impressione di ritenere che le piattaforme abbiano generato in noi qualcosa che prima non c’era: non è così. La tribalità è sempre esistita, ed è sempre stata una forza fondamentale. Forse il motivo per cui parlo in maniera smaliziata della mia bolla è proprio perché mi ci trovo dentro in larga parte involontariamente, sarebbe per me molto più difficile farlo se mi ci riconoscessi in maniera totale e identitaria, sarebbe come l’acqua per il pesce nella nota storiella di Foster Wallace.

Quello però che i social stanno facendo è prendere una delle caratteristiche dell’essere umano e farne l’unico metro – assoluto – dell’esistenza. Attraverso la continua ottimizzazione degli algoritmi hanno creato un ambiente volto a farci spendere più tempo possibile online, in modo che possa venire somministrata la maggior quantità possibile di pubblicità. L’analisi dei dati ha dimostrato nel tempo che il modo migliore di riuscirci era riportarci, per quanto solo virtualmente, al nostro stato pre-civile. In sostanza, l’Occidente si sta imbarbarendo e polarizzando all’interno di camere di autoreferenzialità dove il logos lascia spazio alla tribalizzazione perché in Silicon Valley possano continuare a fatturare.

È questo l’odio che dagli schermi tracima nelle nostre vite in quantità che sembravamo aver dimenticato, un fenomeno molto più ampio e radicale di questo o quel presunto hate speech, è l’aria che ci circonda, è lo spirito del nostro tempo: lo spirito antico della tribù.

 

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Il conformismo degli spaventapasseri

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Questo pezzo è stato pubblicato nella newsletter di Domani il 18/2/2020 // (illustrazione di Dario Campana)

Qual è lo stato della libertà d’espressione in occidente? Diciamo che potrebbe stare meglio. Bari Weiss si è appena dimessa dal New York Times, era stata una dei pochissimi giornalisti di testate liberal a seguire i fatti dell’università di Evergreen, quando Bret Weinstein, un biologo evoluzionista con una lunghissima storia di militanza anti razzista, sostenitore di Bernie Sanders e di Occupy Wall Street e nessun legame con Harvey Weinstein, il produttore cinematografico, fu costretto da alcuni studenti ad abbandonare il college per aver espresso un’opinione.

Che opinione?

Un parere contrario al rovesciamento del Day of Absence da giorno in cui gli studenti e i dipendenti delle minoranze non si presentavano in facoltà per sottolineare la loro importanza a giorno in cui i bianchi venivano ufficialmente invitati dalle istituzioni accademiche a non a recarsi al lavoro o a lezione.

In quell’occasione, Weinstein – che per inciso è una mente brillantissima, consiglio il suo podcast The Black Horse  e in particolare l’ultima puntata dove ospita sette intellettuali afroamericani – scrisse le seguenti parole:

“C’è una grossa differenza tra un gruppo o una coalizione che decide di assentarsi volontariamente da uno spazio condiviso per sottolineare il suo ruolo vitale e normalmente ignorato… e un gruppo che incoraggia un altro gruppo ad andarsene. La prima è una potente chiamata alla coscienza, il che, ovviamente, colpisce la logica dell’oppressione. La seconda è una dimostrazione di forza e un atto di oppressione in sé e per sé.”

In seguito a questo messaggio pienamente nell’alveo del dibattito intellettuale, politico e civile tipico di una democrazia, il professore progressista fu accusato di essere un sostenitore della supremazia bianca, fu inseguito da studenti armati di mazze e gli fu impedito di tenere le sue lezioni nel campus; dovette tenerle in un parco.

Questi fatti incresciosi rimasero per lungo tempo avvolti nel silenzio assoluto dei media perché questo tipo di razzismo non rientrava nella narrativa: gli illiberali in quel momento erano soltanto Donald Trump e i suoi sostenitori non potevano essere anche degli studenti di sinistra della middle class determinati a mettere a tacere un loro professore progressista. Una cosa, per qualche strano motivo, sembrava escludere l’altra.

In questo clima Bari Weiss fu appunto fra i pochissimi giornalisti a dare notizia di questo episodio e ora si dimette dal New York Times, il bastione del giornalismo occidentale sempre più in affanno nel mantenere una linea di area, sì, ma anche attento ai fatti più che alle ideologie.

Nella sua lettera di dimissioni, da leggere con attenzione, la Weiss denuncia il clima di oscurantismo ideologico e di maccartismo che si respira in redazione e parla del ruolo di Twitter nel decidere gli editoriali e la linea politica del giornale. Ne esce il quadro di un’istituzione sotto il perpetuo ricatto dei social network. Data la rilevanza a livello globale della testata questo è un problema per tutti, non solo per gli americani.

Il peso dello spaventapasseri

Il meccanismo è semplice: qualsiasi opinione si discosti anche in minima parte dall’ortodossia dei militanti social viene tacciato in maniera automatica e ossessiva di essere sessista, razzista, patriarcale o collaboratrice di fatto di Trump o (da noi) di Salvini, specialmente se rappresenta una modo meno talebano di essere di sinistra, giacché il nemico per eccellenza della sinistra estrema più che la destra è da sempre la sinistra moderata.

Non sono ammesse discussioni di sorta perché il grande treno progressista della storia sarebbe in viaggio e discuterne sarebbe sempre e comunque un atto reazionario in sé.

Tecnicamente questo si chiama straw man argument, l’argomento dello spaventapasseri: si mette in bocca all’avversario cose che non ha detto e se ne stravolge così totalmente il pensiero, dopo di che si attacca lo spaventapasseri, non più la persona, né la sua idea. L’interlocutore rimane così inevitabilmente schiacciato sotto il peso dello spaventapasseri.

Eccezionale veicolo di conformismo intellettuale lo straw man argument funziona perfettamente nell’ambiente dei social network perché riporta ogni gradazione intermedia e ogni distinguo interno a un discorso verso un estremo già conosciuto e commerciabile, riducendo così interi ragionamenti a quella che i pubblicitari chiamerebbero keyword, e, quel che è peggio, una keyword mistificatrice. La persona a questo punto può anche sgolarsi, ma nessuno la ascolta più, è stata cancellata.

Questo modo di rifiutare il dibattito, distorcendolo, ricorda a un lettore italiano la parte peggiore degli anni Settanta, con i deliri sulle responsabilità oggettive denunciati al tempo da Leonardo Sciascia.

In realtà democrazia, progresso ed equità non potranno mai esistere senza un dibattito pubblico in salute, aperto, libero e questo significa accettare anche opinioni che si discostino dall’ortodossia militante. Soprattutto quelle che si discostano, verrebbe da dire data la scarsissima tolleranza all’altro di queste ultime.

 

Dissenti? Ti cancello dalla società

Spesso la cancellazione prende anche forme più radicali e prevede la perdita del lavoro, la rimozione delle proprie opere dalle piattaforme, l’ostracismo sociale. Per anni Bret Weinstein è stato etichettato online come un estremista di destra e c’è voluta la nascita e l’espansione dei podcast del cosiddetto intellectual dark web perché il biologo bullizzato dagli studenti potesse ricordare che la sua biografia e il suo pensiero dicevano tutt’altro.

Weinstein è una delle tante vittime innocenti di questa nuova versione digitale della caccia alle streghe. Che nel mezzo ci siano andate anche diversi autentici colpevoli, come l’altro Weinstein (Harvey), non giustifica per un momento il trattamento che queste persone hanno ricevuto e continuano a ricevere.

Anche scrivere un articolo come questo oggi porta con sé un certo grado di rischio, il rischio di essere per l’appunto fatti oggetto di uno straw man argument e venire così classificati nel tritacarne dei social come reazionari, con tutte le conseguenze che questo comporta. Per quanto chi scrive soffra sempre un po’ un certo tipo di retorica, denunciare l’assurdità di un clima del genere, rifiutare il ricatto, opporsi alla riduzione di ogni cosa a due polarità, entrambe sbagliate, va davvero assumendo le sembianze di un dovere civile.

La cancel culture più che un movimento progressista è la notte in cui tutte le vacche sono nere e ogni pensiero non allineato, per quanto di poco, è un pensiero estremo e inaccettabile. Una radice dell’attuale contrasto fra città e periferia, fra élite e popolo, fra media ed elettorato sta anche nel rifiuto che le seconde polarità di questi dualismi fanno di quello che ritengono uno stato di polizia del linguaggio che ha da tempo superato i confini dell’auspicabile e del civile per raggiungere i livelli dell’arbitrario.

Al tempo stesso ergersi a sacerdoti di questa nuova ideologia può essere anche in Italia una via semplice e sicura per coprire dei comportamenti quanto meno dubbi, lo dimostra ad esempio l’inchiesta di Tip sull’avvocato-attivista Cathy La Torre. Un pezzo che genera però nel lettore un’ulteriore domanda: quanto ci avrebbe messo un articolo di questo tenore ad essere tacciato di sessismo se l’autore invece che Selvaggia Lucarelli fosse stato un uomo? Il problema è anche questo, affinché si possano denunciare degli autentici casi di sessismo è necessario che non ogni cosa sia automaticamente sessista.

Cosa c’entrava ad esempio il sessismo con le foto del ministro Lucia Azzolina su un sito che pubblica da sempre foto di uomini politici in costume da bagno come Dagospia? Nulla. Sarebbe il caso semmai di discutere dell’opportunità unisex di un simile genere di giornalismo.

Salvare il progressismo dai suoi distruttori digitali

La prima vittima della situazione è quindi l’autentico progressismo liberale che non può esistere senza un’analisi profonda, precisa e dettagliata della realtà, senza un meccanismo di attribuzione delle responsabilità, di riconoscimento dei meriti e, soprattutto, senza un libero scambio di idee che metta continuamente alla prova i nostri concetti di verità, di bene, di giusto.

Se siamo arrivati fino a qui, allo stato attuale della civilizzazione emancipandoci dalla nostra arcaica natura tribale è anche perché abbiamo perseguito questa idea plurale di verità, permettendo occasionalmente l’errore e agevolando, molto più spesso, la creazione di novità positive, in grado di migliorare concretamente la nostra vita, di alleggerirci cioè il fardello dell’esistenza.

Il massimalismo digitale è l’esatto contrario dell’argomentare tipico del logos occidentale e riporta in vita, seppur in forma virtuale, il tribalismo delle nostre origini. Si tratta di un meccanismo perverso che finisce inevitabilmente per avvitarsi su sé stesso alla ricerca dell’estrema purezza, ma la gara a chi è più puro finisce sempre molto male ed è un vortice pericolosamente simile a quello dei totalitarismi, perché chi non è d’accordo non è più “una persona con un’altra idea” ma un incivile, o talvolta persino “un inumano” ( è, cioè, La bestia).

Il meccanismo infatti è capace di distorcere sentimenti morali preziosissimi, come il desiderio di equità, l’antirazzismo, il senso di giustizia, rovesciandoli nel loro contrario proprio mentre non fa altro che ripeterne i nomi, ormai svuotati di senso. Il delitto quindi è doppio perché approfitta della buona fede e dei sentimenti migliori degli esseri umani.

Purtroppo per molte persone tutto questo non rappresenta un problema finché non arriva il giorno in cui assaggiano sulla propria pelle cosa significhi essere oggetto di processi sommari e ideologici e si rendono conto che in un ambiente del genere è diventato impossibile protestare la propria innocenza.

A quel punto però è in genere troppo tardi.

Un altro meccanismo ricorrente della cancel culture è il ricorso costante agli argomenti ad hominem, non rispondere cioè mai alle argomentazioni ma fare cherry picking dalle biografie degli avversari – o storpiarle del tutto –  e tentare di silenziare così la loro voce attraverso la ricerca di un rifiuto a priori da parte del pubblico al quale si richiede l’ennesima prova di appartenenza.

La Silicon Valley e la democrazia liberale

All’interno del meccanismo tritura-realtà dei social network è centrale soprattutto l’esigenza di continuare a ribadire a chi si appartiene, che sia essa la schiera dei sovranisti o quella dell’Italia progressista: più che un’analisi della realtà ai social serve sempre un capro espiatorio da sacrificare seduta stante.

Le piattaforme digitali hanno perciò responsabilità gigantesche nella crisi di senso che affligge l’occidente, sono le loro architetture ad averci reso così dipendenti dalla ricompensa neurologica che riceviamo ogni volta che ci posizioniamo in maniera univoca all’interno di una fazione e non cerchiamo invece una mediazione che consideri anche un certo grado di empatia verso i nostri simili.

Il problema però è enorme: una società incapace di affrontare i suoi problemi per il semplice fatto di essere troppo impegnata nei suoi conflitti tribali per occuparsi del merito delle questioni, non ha futuro perché non può reggere la complessità dei problemi che l’attendono.

Bisogna perciò ripartire dai fatti e sostenere che la cancel culture non esista è prima di qualsiasi altra cosa un’affermazione oggettivamente falsa, perché non sostenuta dai fatti.

Viviamo un periodo storico il cui il rapporto molto “disinvolto” – per usare un eufemismo – dei populismi con i fatti richiede al giornalismo e alla politica un’ancora maggiore serietà che passa anche dalla capacità di mostrare che i propri valori sono realmente universali, non solo a parole.

La cancel culture è la migliore amica dei Trump e dei Salvini perché con i suoi eccessi persecutori impedisce il crearsi di un’alternativa inclusiva, plurale e basata su una libertà di espressione affiancata da un vincolo di realtà.

Per questo se sia la scienza che il giornalismo – due discipline così diverse, eppure entrambe necessarie al nostro modo di vivere plurale e tollerante – vogliono tenere fede alla loro natura e al loro scopo non possono ignorare proprio una cosa: i fatti.

Per quanto odio tribale questo possa generare su Twitter.

 

 

 

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